Il portfolio
dell’insegnante
di Salvatore Sasso
Così come si è parlato in altri contesti riguardo al corretto uso delle tecniche di osservazione, anche per l’utilizzo dello strumento portfolio bisogna considerare la possibilità di un tempo congruo da dedicare al suo training.
Non basta, quindi, conoscere le sue modalità d’uso perché esso, all’interno del new assessment, non è solo un mezzo, uno strumento da applicare in maniera meccanica e ripetitiva, ma una concezione diversa riguardo sia al processo di insegnamento-apprendimento sia ai momenti dedicati alla valutazione e, dunque, si tratta dell’applicazione di una metodologia che consente di valutare consapevolmente e “in situazione”.
Da quanto detto scaturiscono due osservazioni:
- l’attore principale del portfolio è il bambino, che apprende tanto i contenuti quanto a riflettere sui processi che gli permettono di apprendere i contenuti stessi (riflessione sulle strategie metacognitive, affettivo-motivazionali e di attribuzione causale);
- il portfolio “obbliga” l’insegnante a migliorare le pratiche di insegnamento-apprendimento.
Ne consegue che il portfolio permette all’insegnante una riflessione continua, critica e dinamica sulla sua professionalità.
Secondo Bianca Maria Varisco (2004), il portfolio, così come lo abbiamo introdotto, se viene utilizzato quotidianamente dall’équipe educativa, ossia dal gruppo educante che si confronta a livello cooperativo e interdipendente, può consentire:
1. di prendere atto delle credenze educative e di riflettere sul tipo di “filosofia” paradigmatica condivisa;
2. di confrontare il proprio punto di vista con quello dei colleghi, allargando il suo orizzonte paradigmatico;
3. di individuare e valorizzare le “buone pratiche”, considerandole, comunque, sempre inscindibili dal contesto e dalla specificità del singolo “caso” vissuto, perciò veramente e pienamente identificabili e valutabili solo da chi le vive personalmente “in contesto”;
4. di migliorare continuamente le proprie pratiche quotidiane, anche escogitando nuove strategie suggerite dall’esperienza dei colleghi.
Due studiosi americani hanno proposto un canovaccio in base al quale gli insegnanti possono costruire il loro portfolio (Green, Smyser, 1996). Tale modello viene strutturato in cinque aree.
Tabella 1. Un modello di portfolio dell’insegnante
Aree del
portfolio
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Struttura
delle aree
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1. Introduzione
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Presentazione
(racconto autobiografico di sé, delle proprie esperienze educative e
d’insegnamento con i bambini, dei suoi vissuti nei confronti dela scuola ,
dell’insegnamento, dei colleghi ecc.)
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2. Influenze
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Il
modo di creare benessere educativo-didattico a scuola (strategie
d’insegnamento, metodologie, tipi di materiale, organizzazione della/in
classe, collaborazioni ecc)
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3. Istruzione
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Il
modo di insegnare (elaborazione progettuale, coordinamento laboratoriale,
modalità di proporre le attività –per gruppi, a coppie ecc., finalizzazione
delle attività proposte, autovalutazione ecc.)
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4. Individualizzazione
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Progettazione
di strumenti e attività di assessment volti alla personalizzazione dell’apprendimento,
con la mobilitazione di risorse metacognitive e la costruzione del portfolio
(showcase portfolio).
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5. Integrazione
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È
la parte in cui l’insegnante, ripercorrendo le tracce lasciate nelle aree
precedenti, opera un bilancio (riflessione, autovalutazione,
eterovalutazione) della sua pratica di insegnamento prospettando modalità di
miglioramento della sua crescita professionale (corsi di formazione e
autoformazione).
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Bisogna sottolineare come nella compilazione del teacher portfolio sia estremamente importante il ruolo della collegialità. Infatti la consapevolezza del sé professionale dell’insegnante, attraverso l’efficacia delle sue pratiche educative, è possibile soltanto se è presente una continua riflessione critica all’interno del rapporto paritario fra colleghi, fondato sulla cooperazione e sul rispecchiamento di tipo empatico.
Anche per gli insegnanti il portfolio può divenire una sorta di palestra dialogica nasata sul confronto e sullo scambio continuo di punti di vista sui problemi didattici, educativi e comunicativo-relazionali.
Finestra 1. Come costruire il portfolio dell’insegnante
Ogni
insegnante può costruire il suo
Portfolio tenendo conto del contesto in cui insegna. Ci sembra
importante ricordare come tale elaborazione non può essere effettuata da
soli, ma con la partecipazione del gruppo-insegnante. Tale modalità consente
la condivisione dell’esperienza fra tutti i membri del gruppo e la
possibilità che il gruppo stesso svolga un ruolo di partneriato competente.
Il gruppo-insegnante assume la caratteristica di un gruppo di self-help
(Finestra 4.6.) ossia è focalizzato sul mutuo-aiuto e sul perseguimento di
scopi specifici e comuni.
Nel lavoro del piccolo gruppo, si
utilizza la metodologia del problem
solving e dunque si procede al confronto e allo scambio stabilendo
regole, le prese del turno, gli obiettivi via via da affrontare.
ü Era questo
il mio obiettivo?
ü Il gruppo mi
ha “aiutato” a confrontarmi con me stesso?
ü Nel gruppo
siamo stati in grado di aiutarci reciprocamente?
ü Riesco a
condividere di più le esperienze degli altri?
ü Sono,
maggiormente capace di collaborare?
ü L’aver
“ascoltato” gli altri, mi ha consentito, a mia volta, di raccontare di me?
ü Come ho
reagito alle critiche?
ü E ai
commenti positivi?
ü Ho imparato
un metodo di lavoro con gli altri?
ü Tale metodo
mi consente oggi di lavorare diversamente
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Finestra 1. I gruppi di self-help
I
gruppi di self-help sono piccole strutture gruppali, di formazione
volontaria, focalizzate sul mutuo-aiuto e sul perseguimento di scopi
specifici.
Normalmente
sono costituiti da pari che si sono uniti per una mutua assistenza al fine di
soddisfare un bisogno comune. In queste entità gruppali sono enfatizzate le
relazioni faccia a faccia e l’assunzione di responsabilità da parte dei partecipanti;
si offre assistenza materiale e sostegno emotivo, grazie ai quali i
partecipanti possono incentivare la fiducia e la dignità personale.
Il
disagio, nel senso più generale, può essere trasformato in benessere non solo
con l’impegno personale, ma anche più rapidamente in presenza dell’aiuto di
un gruppo di self-help, capaci di accrescere la responsabilità personale,
riguardo sia rispetto al cambiamento sia rispetto alla valutazione delle
proprie risorse (processo di empowerment, ossia la propria capacità di
iniziativa e di espressione dei propri problemi). Il focus del self-help
riguarda così sia la dimensione personale informale, sia l’importanza delle
reciproca comprensione, sia la possibilità di riappropriarsi del proprio
potenziale umano e del proprio potere partecipativo e sociale.
La
filosofia che ispira i gruppi di self-help, in sostanza, si fonda sul
ripartire da se stessi per dare forza ad alcuni costrutti che ci riguardano
da vicino: la comunità, i valori relativi, il grado di autostima, il livello
di autoefficacia.
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1. Un’esperienza di “self report”: l’autoefficacia degli insegnanti[1]
La valutazione è uno degli aspetti pedagogici sui quali si sono accentrati gli interessi dei maggiori studiosi di pedagogia contemporanea e di psicologia delle organizzazioni. Tale centralità è legata alla consapevolezza che la scuola contemporanea non può più adottare criteri valutativi tipici della scuola tradizionale. Si è presa coscienza del fatto che i sistemi di valutazione rivestono una grande valenza formativa all’interno dei processi di apprendimento e d’insegnamento, coinvolgendo quindi sia gli alunni che gli insegnanti. Quest’ultimi, dopo aver raccolto in modo sistematico e sintetico sufficienti informazioni relative ai processi di sviluppo e di apprendimento degli alunni, procedono al lavoro di valutazione, cioè al momento di completamento del controllo scolastico, attraverso il quale, analizzando i dati raccolti nel corso delle varie verifiche, attribuiscono loro un significato pedagogico ed educativo.
Nella scuola tradizionale la valutazione si legava ai voti numerici: il voto era considerato un elemento di controllo del grado di integrazione di quell’alunno all’interno del sistema di apprendimenti e di valori imposti dalla scuola. Con la pedagogia contemporanea la scuola ha ricercato altri criteri docimologici che sappiano offrire maggiori garanzie nei processi formativi. Sempre più spesso parlando di valutazione ci si è riferiti ad un processo che non riguardasse più solo i “discenti” ma anche i “docenti”. Si è iniziato allora a parlare di autovalutazione degli insegnanti e delle loro scelte professionali: gli insegnanti devono autovalutare se stessi, il proprio operato, per porre eventuali adeguamenti in itinere alla programmazione e per prevenire eventuali situazioni svantaggiose e inficianti il lavoro scolastico.
La recente normativa sull’autonomia e sulla valutazione della qualità della scuola, pone l’autovalutazione come esigenza di efficacia non solo negli aspetti quantitativi ed organizzativi, ma anche sotto il profilo della qualità dell’insegnamento e degli ambienti di apprendimento. Accanto al Progetto dell’Offerta Formativa che assicura la progettualità della scuola, l’autovalutazione degli insegnanti conferma l’impegno della scuola a trovare soluzioni migliorative. Alla valutazione esterna si preferisce quella interna; sono gli stessi operatori scolastici che fanno un lavoro di autocritica, ponendo in discussione la loro professionalità nei vari aspetti: metodologici, didattici, relazionali, disciplinari ed organizzativi. L’autovalutazione degli insegnanti serve soprattutto per incoraggiarli ad esaminare le loro prassi didattiche al fine di comprenderle e migliorarle. In quest’ottica assume un’importanza rilevante l’autovalutazione dell’efficacia degli insegnanti stessi. L’autoefficacia percepita corrisponde, infatti, alla convinzione che l’individuo ha di essere capace di dominare specifiche attività, situazioni o aspetti del proprio funzionamento psicologico e sociale, e quindi anche lavorativo (Bandura, 2000). Le convinzioni di efficacia personale sono i più prossimi indicatori di quella che viene definita “human agency”, agentività umana, cioè la capacità della persona di operare nel mondo consapevole di sé e in accordo con il raggiungimento degli obiettivi prefissati e gli standard personali (Caprara, 2001). L’autoefficacia non è una caratteristica stabile e generale della personalità; data la varietà di azioni che la vita ci chiede di affrontare e le differenze nel nostro senso di capacità in relazione a ciascuna di esse, ognuno di noi ha una rete riccamente articolata di convinzioni, alcune connesse fra loro, altre indipendenti, che in una certa misura vengono regolate continuamente tenendo conto della qualità e del livello delle prestazioni proprie e altrui. Infatti, le persone che pensano di produrre una buona prestazione rispetto ad un compito, hanno risultati migliori di coloro che temono di non farcela, a volte indipendentemente dalle reali capacità (Piccardo, 1995). Un’altra caratteristica peculiare dell’autoefficacia è la “specificità”: quanto più si allarga la sfera delle attività alle quali si riferisce un giudizio di efficacia personale, tanto meno si può fare affidamento su tale giudizio per prevedere le condotte prodotte nei diversi contesti, dal momento che è poco plausibile che una persona possa invariabilmente produrre gli stessi livelli di rendimento o le stesse prestazioni nelle situazioni più disparate.
Un’esperienza di “self-report” che ha esplorato le percezioni di efficacia di un gruppo di insegnanti è stata condotta da Salvatore Sasso, docente di Psicologia di Comunità presso l’Università G. D’Annunzio di Chieti, in collaborazione con Giuseppe Altieri (2004). In tale studio sono stati intervistati 100 insegnanti di scuola media superiore ed inferiore ed è stato loro somministrato un questionario con il quale ci si proponeva di valutare il loro “percepirsi efficaci” nel lavoro scolastico. Lo strumento utilizzato è la traduzione italiana della “Teachers’ Sense of Efficacy Scale” (Tschannen-Moran, Woolfolk Hoy, 2001). Tale scala è stata ideata da due ricercatrici della “School of Educational Policy and Leadership” della Ohio State University che si sono occupate molto della situazione degli insegnanti nel loro paese. I loro studi (Tschannen-Moran, Woolfolk Hoy, 2000; Woolfolk Hoy, 2004; Tschannen-Moran, Uline, Perez, 2003) si sono concentrati sulle variabili, individuali ed ambientali, che ostacolano o che comunque inficiano il lavoro degli insegnanti a scuola. La traduzione italiana del test è stata messa a punto da Salvatore Sasso. La scala è composta da 24 items ai quali si può rispondere lungo un “continuum” di nove punti che vanno da: 1 niente, 2, 3 pochissimo, 4, 5 poco, 6, 7 abbastanza, 8, 9 moltissimo. Sono stati, inoltre, aggiunti items di tipo demografico che chiedono ai soggetti informazioni riguardanti: il sesso, l’età, il tipo di scuola in cui s’insegna:
· scuola media inferiore;
· scuola media superiore;
gli anni di titolarità, se si è titolari di cattedra, e l’area d’insegnamento:
· area umanistica: materie letterarie, storia, lingue ecc.;
· area scientifica: matematica, economia, fisica ecc.;
· area tecnica: educazione tecnica e musicale, disegno, educazione fisica, meccanica ecc.
Gli ideatori del test hanno individuato, inoltre, tre sottoscale formate da otto items ognuna. Le sottoscale misurano:
1. L’efficacia nel “coinvolgimento attivo degli studenti” (items: 1, 2, 4, 6, 9, 12, 14, 22);
2. L’efficacia nelle “strategie educative” (items: 7, 10, 11, 17, 18, 20, 23, 24);
3. L’efficacia nella “gestione della classe” (items: 3, 5, 8, 13, 15, 16, 19, 21).
Queste tre sottoscale, complessivamente, compongono il “senso di efficacia degli insegnanti”.
Tra i 100 insegnanti intervistati, 50 avevano partecipato ad un corso di formazione per l’abilitazione all’insegnamento di sostegno indetto dalla S.S.I.S. di Chieti, mentre gli altri 50 non avevano partecipato a nessun corso. I primi, durante il corso, sono stati impegnati in insegnamenti teorici, laboratori e tirocini, ed hanno avuto esperienze di lavoro di gruppo soprattutto durante quest’ultimi. Ai due gruppi è stato chiesto di rispondere alle domande del questionario e i risultati ottenuti sono stati analizzati e confrontati. Si è visto che gli insegnanti impegnati nel corso avevano punteggi superiori rispetto ai loro colleghi di “controllo”, anche se le differenze non raggiungevano la significatività statistica; in pratica si sentivano più efficaci nello svolgimento del proprio lavoro. L’ipotesi sottostante a tale ricerca era che un percorso di formazione che comprendeva esperienze di lavoro di gruppo, apportasse miglioramenti significativi al grado di efficacia degli insegnanti e conseguentemente al loro livello di empowerment. Da tale esperienza si possono ricavare ulteriori spunti e riflessioni su quella che dovrebbe essere una prassi operativa consolidata: la valutazione del “sistema scuola” e dei suoi principali operatori. Una scuola che è capace di leggere la propria esperienza e saper sviluppare le proprie abilità operative, ha la reale possibilità di migliorare gli standard. L’iniziativa in esame offre numerosi spunti di dibattito sia come esempio di progetto ideato e realizzato in un periodo di cambiamento dell’organizzazione scolastica, sia come possibile soluzione all’esigenza diffusa di un maggiore monitoraggio dell’attività didattica e sia come esperienza di valutazione dei corsi di formazione ai quali partecipano gli operatori scolastici.
Definire oggi che cosa devono sapere e saper fare gli insegnanti non è cosa facile, anche perché ci troviamo in presenza di un’accelerazione e di una radicalità del cambiamento mai prima sperimentata. Ogni insegnante ha la propria individualità e ci sono molti modi attraverso i quali egli può raggiungere buoni risultati, utilizzando alcune conoscenze e competenze più di altre o alcune strumenti al posto di altri. Se la capacità di condurre valutazioni sistematiche della produttività della scuola fosse acquisita abbastanza agevolmente, la padronanza dei meccanismi di miglioramento sarebbe un vantaggio di assoluto rilievo per un sistema educativo efficace, efficiente e produttivo.
Il cambiamento non è tanto generato dall’introduzione della “nuova organizzazione scolastica” che si cerca di rendere più autonoma o dalla riforma dell’organizzazione degli studi e dei curricoli, ma piuttosto dalla incalzante trasformazione del modo di formarsi delle conoscenze ad opera delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, che hanno modificato profondamente il modo in cui si alimenta il patrimonio del sapere. In questa situazione di caduta di antiche certezze, c’è però un nuovo principio professionale: la convinzione che “tutti i ragazzi possono imparare”. La prima cosa è prendere atto dell’alto grado di improbabilità del modello ereditato dal passato basato sulla conformità dell’apprendimento rispetto all’insegnamento, e sulla considerazione che il “non apprendimento” fosse una devianza, un’eccezione rispetto al modello standard, in rapporto al quale era necessario attivare un intervento post-factum, il recupero. A questa visione deve subentrarne una nuova che prenda atto dell’alto grado di improbabilità della automatica corrispondenza fra insegnamento e apprendimento e assuma come proprio principio la valorizzazione delle diversità, intese anche e soprattutto come diversità di stili cognitivi e di intelligenze. Come gli alunni, ogni insegnante ha la propria individualità e ci sono molti modi attraverso i quali gli insegnanti stessi raggiungono buoni risultati, utilizzando alcune conoscenze e competenze più di altre, o alcune strumenti al posto di altri. Non solo l’apprendimento intellettuale e il comportamento sociale degli alunni, ma anche l’organizzazione complessiva della scuola e i suoi aspetti particolari devono divenire oggetto di misurazione. E’ inoltre importante osservare come i risultati ricavati dalla lettura dei questionari siano intesi non come un giudizio sulla professionalità del singolo docente, quanto come un feedback di indicazioni, tendenzialmente oggettive, data la loro provenienza da punti di osservazione diversi e distinti, volte al miglioramento dell’attività docente. È bene chiarire che con tali iniziative non si vuole distinguere tra docenti “più bravi” e docenti “meno bravi”, tale distinzione comporterebbe l’inevitabile conseguenza della discriminazione tra gli studenti che potranno avere i primi e studenti che si dovranno accontentare dei secondi, tutto ciò è in palese violazione dei principi fondamentali della nostra Costituzione. La positiva ricaduta sulla formazione degli studenti di questi processi di valutazione del corpo docente risiede nel monitoraggio costante dello “stato di salute” dell’organizzazione scolastica in tutte le sue componenti, docenti compresi, e nell’adottare strategie d’intervento appropriate alle specifiche difficoltà incontrate. Ciò potrà essere realizzato a partendo da corsi di formazione che siano “empowerizzanti” prima per gli insegnanti, e poi, di riflesso, per gli alunni, affinché il diritto degli studenti, e della società in genere, di avere “formatori” qualificati, si traduca nel dovere dello Stato di qualificare tutti gli insegnanti.
In conclusione, all’interno delle scuole si dovrebbero stimolare processi di autoformazione e autovalutazione degli insegnanti, utilizzando dipartimenti per materia e/o materie affini dove i docenti possano consultarsi e confrontarsi con i colleghi che operano nella stessa realtà scolastica e quindi coinvolti nelle stesse problematiche sociali presenti sul territorio con spirito cooperativo e non competitivo. Crediamo infatti che nessun esperto che intervenga “dall’alto” o comunque dall’esterno, possa operare scelte migliori di quelle effettuate da insegnanti forniti di strumenti e competenze adatte e nel rispetto totale della libertà di insegnamento.
[1] Il paragrafo è stato scritto in collaborazione con Giuseppe Altieri, laureato in psicologia.