mercoledì 1 marzo 2017

L’Altra crescita e la relazione educativa: dal cambiamento alla trasformazione

L'Altra crescita e la relazione educativa: dal cambiamento alla trasformazione
di Salvatore Sasso
 
1.     Il concetto di crescita
   La prima rappresentazione del concetto di crescita richiama alla mente lo sviluppo di una persona dal concepimento in avanti. Se riportiamo il concetto di crescita nell'ambito della relazione educatore-educando, possiamo osservare un aspetto più complesso. Le difficoltà che talvolta emergono, utilizzando questo tipo di analisi, nascono nel verificare l'assenza nella relazione educativa di una predisposizione all'"entropia", ossia la possibilità che si crei una nuova ristrutturazione non stabile e ripetitiva del sistema educatore-educando, che non permette di cogliere quegli aspetti del processo relazionale che appartengono a entrambi i membri della coppia all'interno dello spazio educazionale (Prigogine, 1985). Da una parte, infatti, vengono sottolineati alcuni aspetti "caratteristici" o meglio "caratteriali" dell'alunno e, dall'altra, banalizzati alcuni aspetti psicologici dell'insegnante.
   Cogliere l'unicità del processo di crescita significa, al contrario, affrontare globalmente il significato della relazione educativa.

2.     Un caso
   Iniziamo il nostro discorso partendo dall'analisi di un'esperienza didattica compiuta da un'insegnante.
   "Quando x, un bambino portatore di handicap, frequentò con noi la prima classe elementare, ero già in analisi da sette mesi, perché dentro di me avevo finalmente maturato la decisione di intraprendere "quel percorso". Non dimenticherò mai la mattina in cui con le mie quattro colleghe (insegnanti di un modulo 4 su 3 e insegnante di sostegno) entrammo in contatto per la prima volta con il suo pianto straziato, carico di una lacerante angoscia, senza poter decodificare le sue richieste, senza poter alleviare la sua sofferenza, senza poter instaurare un rapporto immediato" (Scorcelletti, 1994).
   Inizia con queste parole la descrizione del primo impatto con la realtà scolastica di un bambino di 6 anni la cui diagnosi clinica era di avere dei disturbi del carattere.
   La testimonianza così continua: "L'insegnante che all'epoca svolgeva la funzione di psicopedagogista ci aveva dato alcuni suggerimenti da utilizzare in caso di "crisi": fare una barriera umana intorno ad x che funzionasse da contenimento per lui e da protezione per gli altri bambini e (suggerimento riguardante ogni situazione) entrare in relazione con lui gradatamente, una persona alla volta, man mano che lui ne mostrasse, in qualche modo, il desiderio, senza soffocarlo con le nostre presenze. Ma quella mattina le cose andarono così: la crisi di x si manifestò in un'aula vuota del piano e, non essendoci altri bambini da tutelare in quel luogo, ognuna di noi si trovò direttamente coinvolta nella profonda essenza del dramma umano che egli proponeva. Non c'era scampo: prendere o lasciare. Da, l'insegnante di sostegno, sensibile attenta e disponibile sul piano empatico, era come un pulcino spaurito che doveva fare i conti con qualcosa di troppo grande; Gi, un'altra insegnante del team, leggendo il panico negli occhi di Da, prese subito sotto la sua materna protezione sia Da che x, si avvicinò e si candidò a entrare in relazione con lui per prima; Gi riesce ad essere accogliente senza fatica e senza rimanere troppo coinvolta nelle angosce dell'altro, salvando la sua serenità di fondo. Io (La), inserita nello stesso gruppo di insegnanti, guardavo la scena dalla porta dell'aula; anche Ti, la quarta insegnante del modulo, si avvicinò e, da incurabile "altruista", assunse subito il ruolo di prendere i calci e i pugni di x. Ti è un pò come Gi, ma anziché abbracciare ed accogliere lei si mette a completa disposizione di chi è angosciato fino a farsi completamente carico del suo dolore. Da, invece, mi si avvicinò titubante, dicendo: "La barriera, dobbiamo fare la barriera, e poi lì sono in tre, una alla volta, dovevamo fare una alla volta...!" La guardai con occhi supplichevoli, lei capì che non era il caso di insistere. Le parole della psicopedagogista, in quel momento, suonavano nella mia mente come qualcosa di inadeguato: una barriera al posto di un contatto...!...Rimasi ancora immobile sull'uscio, non ero in grado di fare nulla, poi una fitta, un forte dolore nel petto e decisi di ritirarmi nell'auletta del caffè, mi sentivo proprio male. Lì raccolsi il mio braccio sinistro nel destro, mi abbracciai, il suo pianto arrivava alle mie orecchie e si mescolava al mio".
   La prima osservazione che possiamo desumere, dopo la lettura di questo caso, riguarda la complessità dello sviluppo di un bambino, in quanto i cambiamenti devono essere compresi non solo attraverso i mutamenti della persona, ma soprattutto nella modificazione del campo e delle relazioni sociali. Il bambino, e non solo il cosiddetto caratteriale, scatena una dinamica relazionale nel momento in cui propone qualcosa di sé. Bisogna però tenere presente che, in questo caso, con il suo comportamento il bambino problematico era se stesso, e ciò gli era possibile perché riconosciuto da una certificazione medica. A differenza di altri bambini "normali" a lui era permesso di manifestare ciò che sentiva.
   Una seconda considerazione concerne il tipo di dinamica relazionale messa in atto dal bambino, che non è dipesa solo da ciò che lui proponeva ma anche dalle caratteristiche psicologiche delle sue insegnanti.
   Quando un bambino domanda qualcosa agli adulti in relazione ai suoi bisogni, l'insegnante risponde in maniera proporzionale alle sue possibilità. Se l'insegnante risponde ai bisogni (cognitivi e emotivi) del bambino fra i due si costituisce un rapporto.
   E' possibile però che il bisogno del bambino tocchi qualche area irrisolta della personalità dell'insegnante. In questo caso, l'insegnante offre delle soluzioni inadeguate e quindi o si sente impotente e pronuncia frasi come "con quel bambino non so che fare", "anche suo padre si comporta in quel modo", oppure rimanda la sua impotenza al bambino caricandolo di altre responsabilità e può, ad esempio, dirgli "sei un bambino impossibile", "sei cattivo", "guarda che fai!".
   Nel caso del bambino "caratteriale" presentato, le insegnanti cercano di capire il bambino ma ognuna reagisce in un modo differente dalle altre. Da (l'insegnante di sostegno) non cerca il contatto perché si sente smarrita; Gi stabilisce un contatto materno; Do rinuncia momentaneamente secondo quanto aveva detto la psicopedagogista; Ti stabilisce un contatto rendendo il suo corpo disponibile all'attacco; La cerca un contatto di tipo psichico, facendo sfumare le due entità psichiche insegnante-alunno, attraverso uno "scudo protettivo", o mediante quella "preoccupazione materna primaria" di cui parla D. Winnicot (1958).

3.     Alcune considerazioni
   Si deve comunque tenere presente che l'esperienza scolastica non può guarire un bambino, ma può essere determinante nel creare una relazione, momento fondamentale su cui poggia il processo di crescita. La scuola, pertanto, deve offrire all'alunno la possibilità di crescere, secondo le sue possibilità e attraverso esperienze non contraddittorie. Fra il gruppo degli insegnanti e i bambini diviene importante creare una comunicazione di tipo circolare, in modo che ognuno utilizzi le sue possibilità e capacità.
   Secondo quanto afferma Jerome Bruner (1990) la condivisione del significato della crescita, legato al processo educativo, ha luogo all'interno di un gruppo sociale. Secondo questo autore il fattore principale che aiuta l'uomo nel suo sviluppo, dalla nascita in poi, è la cultura, ossia un prodotto della "storia" che si svolge all'interno di una situazione educativa in cui le intenzioni dei partecipanti siano reciprocamente condivise.
   Donald Winnicot (1993), a proposito del comportamento genitoriale usa l'espressione "sufficientemente buono". Nello stesso modo possiamo riferirci agli insegnanti "sufficientemente buoni" quando nella relazione educativa offrono lo stesso spazio agli alunni, comportandosi coerentemente così come sono loro stessi al fine di farsi conoscere. Se l'insegnante dovesse recitare una parte sarebbe molto facile essere scoperto nel momento in cui non usasse alcun trucco, ma sarebbero enormi le ripercussioni sul significato della relazione.
   L'intenzionalità degli atti comunicativi non possono, quindi, prescindere dalla storia personale degli "attori" che partecipano al processo di crescita. Non esiste un copione predeterminato dall'educatore o dall'educando al di fuori della considerazione reciproca delle emozioni, degli affetti, della propria identità, fisica e psichica.
   Il fluire dei sentimenti e delle conoscenze comporta l'esistenza di una memoria individuale e culturale che imprime significato al processo di crescita.
   All'interno della scuola spesso si osserva la mancanza di una ri-considerazione storica delle conoscenze e dei livelli emotivi e affettivi dei soggetti in sviluppo. La storia delle esperienze educative sono avvolte da un alone burocratico che mette sullo sfondo il rapporto educatore-educando.
   Secondo Jerome Bruner, le persone imparano ad apprendere quando riescono ad integrare le proprie e le altrui competenze. Questo processo è possibile attraverso una meta-riflessione, ossia una riflessione non semplicemente legata a quanto si viene mostrando agli altri, ma al significato che un sentimento, un'emozione, un comportamento o un'azione acquista per se stessi. In tal modo si evidenziano le proprie diversità che vanno colte reciprocamente, senza che vengano messi in atto meccanismi di difesa per non alimentare eventuali distorsioni nel giudizio.
   Questo processo consente di integrare e di valorizzare le diversità nel singolo individuo e fra i soggetti di un gruppo sociale, considerando la crescita di una persona mediante la continua ricostruzione-riflessione tra il passato e gli scopi rivolti al futuro.
   Il processo di crescita può essere riassunto attraverso tre modalità di espressione che convergono verso il concetto "dell'altra crescita".
   La prima modalità riguarda il rapporto tra ciò che si pensa, si sente e si comunica e ciò che si attualizza mediante le emozioni, il pensiero e l'azione, nel senso che non esiste una separazione tra ciò che penso e dico, e il come riesco a comunicarlo agli altri. A questo proposito Jerome Bruner afferma che quanto una persona dice, pensa o sente non può essere considerato come una predizione di un comportamento che il soggetto manifesterà all'esterno, poiché la concretizzazione del fare è legata alle circostanze ambientali. L'interpretazione di un pensiero o di una emozione è, dunque, funzionalmente interrelata al significato che l'espressione di quel pensiero o di quell'emozione assumerà in un determinato contesto sociale.
   In quest'ambito è necessario il proprio e continuo riconoscersi nel rispecchiamento con l'altro, evidenziandone le differenze. Infatti, solo se si riesce a riconoscere l'altro come diverso da sé è possibile sviluppare il processo di crescita.
   Le difficoltà inerenti al non riconoscere l'altro come diverso da sé si esprime nel suo rifiuto. Le motivazioni che ne sono alla base si riferiscono soprattutto alla "incapacità" di una persona, in un certo momento, di capire come il rifiuto di alcune caratteristiche dell'altro non hanno un "semplice" riscontro oggettivo ma derivano da un "complesso" fenomeno psichico attraverso cui si "proietta", ossia si riversa sull'altro che mi sta davanti qualcosa della mia diversità che non riesco non soltanto ad accettare quanto a ri-conoscere.

4.     Un secondo caso
   In una esperienza pluriennale svolta nella scuola elementare al fine di "integrare" un gruppo di bambini, al cui interno era presente una bambina con un handicap molto grave, si è iniziato a lavorare con due fondamentali obiettivi. Il primo riguardava il come poter instaurare una comunicazione significativa con lei e il secondo il come individuare i suoi bisogni. Seguendo il percorso della crescita sin qui descritto, l'integrazione è stato un processo che ha riguardato tutti i membri del gruppo-classe. Il primo aspetto sviluppato è stato centrato sul ri-conoscimento delle proprie diversità così che la bambina disabile, nonostante la sua evidente diversità, non è apparsa diversa solo per il suo handicap ma in quanto persona e, pertanto, non è stata considerata così diversa rispetto al resto del gruppo (Sasso, 1995).


5.     Alcune riflessioni
   La differenza tra il caso del bambino "caratteriale" e la bambina cerebrolesa è solo apparente. Nella prima situazione abbiamo visto un gruppo di insegnanti che sono riusciti, nel tempo, a creare una relazione fondata sulle loro capacità. Nella seconda esperienza è stato il gruppo intero, formato dai bambini, dalla bambina disabile, dagli insegnanti e dall'assistente, a creare delle relazioni circolari, ognuno integrando le proprie possibilità nel confronto con gli altri. La bambina disabile, pur essendo stata inizialmente il fulcro del gruppo, via via nel tempo, ha assunto il ruolo di co-partecipazione all'emergere dei problemi di crescita in tutti i componenti il gruppo.
   Il denominatore comune in entrambe le esperienze è l'integrazione vista contemporaneamente come un processo di crescita degli altri e di se stessi.
   Il nostro modo di pensare e di sentire, in base a queste considerazioni, non deve cambiare ma trasformarsi. Mentre il cambiamento presuppone il passaggio da una stato A a uno stato B per l'insorgenza di un problema che può disequilibrare una persona o un gruppo riportandoli ad uno stato di equilibrio, la trasformazione è legata a delle variabili personali e del contesto i cui caratteri di complessità rendono sempre "imprevedibili" e "incerte" le relazioni nel gruppo, di cui fa parte integrante anche l'educatore.
   "L'altra crescita" è, dunque, la crescita della persona che si trova in un gruppo sociale e dello stesso gruppo. Entrambi si trasformano non in qualcos'altro ma, secondo un sviluppo multidimensionale, relativamente alle potenzialità presenti in ognuno e nel contesto sociale, potenzialità che permettono la nascita di relazioni in cui si intrecciano le diverse modalità di sentire e di pensare, offrendo una base diversa al processo di crescita.
   Le modalità fondamentali legate alle trasformazioni che si verificano durante il processo di crescita sono la continuità e la discontinuità. La caratteristica della continuità è la possibilità di prevedere il cambiamento, mentre la discontinuità opera per salti ed è più imprevedibile. Spesso nell'ambito della psicologia la discontinuità rappresenta il sintomo disfunzionale. Se però si focalizza l'attenzione solo sulla continuità dello sviluppo si rischia di non comprendere la "diversità", rimanendo in uno spazio concettuale "convergente" piuttosto che "divergente".
   Nell'ambito delle scienze sociali E.C. Zeeman (1976) ha tentato di applicare un modello matematico che descrive i fenomeni discontinui: la Teoria delle Catastrofi. Zeeman afferma che "il mondo è pieno di trasformazioni improvvise e di imprevedibili discontinuità che richiedono l'utilizzo di funzioni che non sono differenziabili". Il merito di questa teoria, secondo H.J. Sussman e R.S. Zahler (1978), è di contribuire al superamento di modelli interpretativi sequenziali che perdono di vista la complessità di molte situazioni comportamentali.
   Riportandoci al contesto scolastico si può dire che il processo di sviluppo del bambino, quello del gruppo dei bambini e quello dell'educatore sono inscindibili. La crescita di ogni soggetto, pertanto, avviene all'interno del contemporaneo processo di cambiamento del suo gruppo di appartenenza. Spesso si tende, invece, a scindere e isolare il processo di sviluppo del singolo.
   Un concetto che può unire i processi individuali e del gruppo di appartenenza è il gioco relazionale. L'analisi dei giochi relazionali consente di verificare l'influenza reciproca tra tutti i soggetti coinvolti nel processo relazionale (C. Ricci, 1984).
   La coevoluzione educatore-educando permette la costruzione di strutture interattive che sono la risultante del processo di apprendimento che coinvolge contemporaneamente tutti i giocatori "di quel gioco" e "di diversi giochi". Diventa perciò fuorviante il focalizzare la propria attenzione solo su uno dei partecipanti poiché, in questo caso, si vengono a perdere quegli elementi di adattamento reciproco che contribuiscono alla determinazione delle dinamiche e dell'evoluzione dei processi di apprendimento relazionale.
   Le trasformazioni possono essere influenzate o indotte dalle variazioni nel numero dei giocatori, nel contesto e nelle regole, proposte o imposte. Le difficoltà relazionali presenti in un contesto coinvolgono, pertanto, contemporaneamente tutti i presenti.

6.     I determinanti per “L’altra crescita”
   I determinanti che occorrono per sviluppare "l'altra crescita" sono quattro. Il primo concerne il processo di integrazione delle proprie e delle altrui diversità. Come si è già detto questo processo riguarda tutto il gruppo educatori-educandi. Spesso però quando si lavora tra colleghi insegnanti emergono numerose difficoltà nel constatare le diversità degli altri. Questa indisponibilità offre poche o affatto occasioni di confronto sulla conduzione del processo educativo, cosicché si evita di "mostrarsi" in quanto una riflessione sui propri eventuali errori metodologici può aprire la strada a semplici valutazioni moralistiche. L'associazione che viene evidenziata riguarda soprattutto il binomio "diversità uguale errore". La conseguenza di questo ragionamento, privo anche di una logica scientifica, rischia di produrre effetti devastanti sul processo di integrazione di quegli aspetti di diversità fra il gruppo degli alunni e l'insegnante.
   Il secondo determinante riguarda la motivazione che deve essere finalizzata non solo verso la componente cognitiva ma anche nei confronti dei sentimenti e delle emozioni. La riflessione sul processo di crescita nasce nel riconoscere la coesistenza in noi di parti che ci piacciono e che non ci piacciono. Rispetto alle capacità intellettive, spesso i bambini e i ragazzi vengono demotivati nel momento in cui si tende a ricompensare e lodare solo alcuni tipi di abilità, emarginando chi delude le aspettative di un certo tipo di cultura ed evidenziando le differenze in termini negativi piuttosto che positivi.
   Un terzo determinante che contribuisce allo sviluppo del processo di crescita racchiude la fiducia e la sicurezza. Entrambi i processi psicologici si concretizzano solo se la fonte di fiducia e di sicurezza riconosce l'altro come soggetto indipendente che, possedendo delle sue competenze cognitive e affettive, può esplorarle con il proprio punto di vista. A volte, però, accade di osservare alcuni adulti educatori che scindono il processo di individuazione del bambino da un'eventuale "rete protettiva" che lo stesso adulto può fornire, perchè quest'ultima, secondo loro, potrebbe preservare il soggetto di apprendimento dall'assunzione delle proprie responsabilità. Nel caso del bambino con disturbi del carattere l'insegnante La tenta questo approccio attraverso un ascolto empatico.
   Ma se autoresponsabilizzare l'altro implica fiducia, la protezione, ossia una sorta di "scudo", o di "preoccupazione" che l'adulto offre al soggetto in crescita in un particolare momento del suo sviluppo evitando che egli possa essere "invaso" da avvenimenti esterni o "pervaso" da angosce interne, aiuta la formazione del concetto di sé da cui scaturisce la sicurezza di sé.
   Il quarto determinante, la costruzione delle relazioni, racchiude gran parte di quanto si è analizzato sin qui.
   Infine, vorrei mostrare come nell'esperienza di integrazione, già in precedenza accennata, alcuni elementi significativi, di cui abbiamo discusso, si siano evidenziati nella discussione con i bambini. Essi hanno individuato dentro di sé, mediante il confronto nel gruppo, alcuni concetti fondamentali che sono alla base del processo di crescita: il concetto di bisogno, di aiuto e di spinta motivazionale interna. I bambini di otto-nove anni sono riusciti a far emergere i loro bisogni, confrontandoli con quelli della loro compagna disabile.

7.     Conclusioni
   In conclusione, si può affermare che il processo di crescita inizia alla nascita e si trasforma continuamente. Per elaborarlo abbiamo bisogno degli altri e soprattutto che possiamo, a tal fine, essere aiutati dagli altri. E ancora, se le persone non avessero alcun tipo di bisogno cognitivo, affettivo o relazionale, non potrebbero essere aiutati a crescere. Insomma, il problema principale del processo educativo può essere riassunto nel concetto relativo a "L'altra crescita".


Bibliografia
Bruner, J. (1990), Acts of meaning, by the President and Fellows of Harvard College, (trad.it La ricerca del significato, Torino, Bollati Boringhieri, 1992).
Prigogine, I (1985), L'esplorazione della complessità, in G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), "La sfida della complessità", Milano, Feltrinelli.
Ricci, C (1984), Complessità e giochi sociali, in "Studi di Psicologia Politica", Milano, Giuffrè.
Sasso, S. (1995), Il filo di Arianna, in M. Panier Bagat e S. Sasso (a cura di), "L'altra crescita", Milano, Franco Angeli.
Scorcelletti, L. (1994), La formazione psicodinamica del docente, in "Il Bambino e l'acqua sporca", 14, pp.24-26.
Sussman H.J., Zahler R.S. (1978), Catastrophe Theory as applied to the social and biological sciences: A critique, in "Syntese", 37, pp. 117-216.
Winnicott, D. (1958), La preoccupazione materna primaria, in "Through Paediatrics to Psycho-analysis", London, Tavistock Pubblications, (trad.it. La preoccupazione materna primaria, in "Dalla pediatria alla psicoanalisi", Firenze, Martinelli, 1975).
Winnicott, D. (1993), Talking to Parents, Boston, Merloyd Lawrence Books, (Trad.it. Colloqui con i genitori, Milano, R. Cortina, 1993).