sabato 26 dicembre 2015

Il Laboratorio Metacognitivo del Centro di Psicologia per l'età evolutiva: Linee guida teoriche e metodologiche di Salvatore Sasso

Il Laboratorio Metacognitivo del Centro di Psicologia per l'età evolutiva:
Linee guida teoriche e metodologiche
di Salvatore Sasso



Pensiamo sia necessario contribuire al recupero e al potenziamento delle difficoltà di apprendimento, specifiche e non, presentate dagli alunni a scuola.
Le linee guida teoriche e metodologiche, che abbiamo sviluppato nel corso dell'esperienza, contengono, al loro interno, una serie di principi multidimensionali e integrati.

1.    Ipotesi, azioni, metariflessioni
Fin dagli anni Ottanta, come afferma Alison Gopnik (2012), è stato dimostrato come i bambini posseggano competenze per elaborare teorie razionali sul mondo.  Le rappresentazioni razionali che si formano sul mondo fisico, biologico, psicologico e sociale consente loro di comporre delle vere e proprie predizioni. Questa visione del mondo i bambini iniziano a formarsela già a pochi mesi dalla nascita. Questa visione del mondo che circonda i bambini, nel pensiero di Alison Gopnik –allieva di Jerome Bruner – è “astratta, strutturata, coerente e causale simile a quella proposta nelle teorie scientifiche”. Insomma il modo di pensare dei bambini è simile al modo di apprendere, in maniera induttiva, degli scienziati.
Questo modo di procedere è appunto il criterio scientifico usato nei laboratori metacognitivi prospettati da Centro di Psicologia per l'età evolutiva.
Come afferma Howard Gardner (Sapere per comprendere, Feltrinelli, Milano, 1999, pp.153-155), “gli scienziati si propongono di spiegare le regolarità del mondo. In questa impresa essi si avvalgono delle proprie osservazioni, che a loro volta, dipendono da strumenti di misurazione alquanto complessi, e fanno tesoro degli sforzi con cui pensatori empiricamente orientati già in passato si sono impegnati a formulare i problemi e a fornire soluzioni sistematiche”.
Ciò che ai bambini occorre nella fase sperimentale è, come riferisce Gardner sempre a proposito dello scienziato, l’avere presente la dialettica tra dati osservativi e schemi teorici. Torneremo più avanti sulla necessità di utilizzare delle riflessioni con gli alunni indirizzandoli verso la complessità della metacognizione.
Karl Popper ci ha insegnato che le teorie scientifiche non sono quasi mai induttive (vedo tutti cigni bianchi e ne induco la legge “tutti i cigni sono bianchi”), ma quasi sempre di tipo ipotetico-deduttivo. Ma è anche vero che gli scienziati usano nella prassi quotidiana del loro lavoro anche il ragionamento induttivo.
Popper per descrivere il proprio approccio filosofico alla scienza ha coniato l'espressione razionalismo critico che implica il rifiuto dell'empirismo logico, dell'induttivismo e del verificazionismo. Egli afferma che le teorie scientifiche sono proposizioni universali, espresse al modo indicativo della certezza, la cui verosimiglianza può essere controllata solo indirettamente a partire dalle loro conseguenze. La conoscenza umana quindi, è di natura congetturale e ipotetica, e trae origine dall'attitudine dell'uomo a risolvere i problemi in cui si imbatte, quando cioè appare una contraddizione tra quanto previsto da una teoria e i fatti osservati.
In tal senso la contraddizione svolge un ruolo fondamentale per il progresso scientifico, che non è stimolato dalla semplice osservazione empirica: gli uomini infatti, e così pure gli animali, non pensano in termini induttivi, come riteneva erroneamente Bacone, ma partono da modelli mentali speculativi che fanno da guida alle loro esperienze, attraverso un processo continuo di tentativi ed errori (Andrea Borghini, Karl Popper: politica e società, p. 27, Franco Angeli, Milano 2000). La ricerca, infatti, non parte da osservazioni, ma sempre da problemi che risolviamo servendoci dell'immaginazione creatrice, di ipotesi o congetture (Karl Popper, Congetture e confutazioni vol. I, p. 66, Il Mulino, 1985).
Nei nostri, infatti, laboratori privilegiamo sempre il confronto fra i bambini, quando si tratta di riflettere, ad esempio, o sul racconto di una favola o sull’individuazione/percezione delle proprie emozioni.

2.    L’arte dei bambini di apprendere: dall’esperienza manipolativa e  rappresentativa ai Neuroni a specchio
Ma come apprendono i bambini?
Secondo Alison Gopnik i bambini apprendono in tre modi: con un ragionamento di tipo probabilistico, con esperimenti e dagli altri. Esattamente come fanno gli scienziati.
1. Il ragionamento di tipo probabilistico, perfettamente razionale, è quello più usato dai bambini. In tal modo il bambino potrà elaborare la sua teoria esperienziale.
È ovvio che per ogni “fatto naturale o sociale” esistono delle “variabili intervenienti” che non danno la massima certezza ma solo uno scenario di probabilità. A tal proposito sempre H. Gardner (1999, 154) afferma che la matematica gioca un ruolo importante nelle scienze più sofisticate…questa è l’idea enunciata da Galileo Galilei quando dichiarò che il libro dell’Universo ha un alfabeto fatto di triangoli, cerchi e altre figure geometriche.
2.  Insomma, per compiere un’esperienza la più vicina alla scienza occorrono gli esperimenti. Anche il “fare” un salame di cioccolata è sperimentare, in quanto si fa esperienza sugli ingredienti e sulle quantità. Dunque, soprattutto mediante il gioco, il bambino non fa altro che sperimentare. Infatti, come detto più sopra, la scienza è un insieme di teorie ed esperienze. Ma non solo gli scienziati realizzano esperimenti in maniera ordinata e sistematica. Secondo Alison Gopnik (2012), ci sono prove empiriche sufficienti a dimostrare che i bambini nei loro giochi o nelle esperienze scientifiche guidate siano sufficientemente sistematici da e controllare ciò che stanno facendo.  
Tutti gli esperimenti presenti nel progetto di Maestra Natura seguono questa logica.
3.  Come fanno i bambini ad apprendere dagli altri? Se gli scienziati utilizzano modalità, per comunicare tra loro, sia a livello formale (gli articoli pubblicati su riviste specializzate, i libri, i congressi, i seminari) che informale (la contiguità in laboratorio, le lettere e ora le e-mail, le chiacchiere al bar), nello stesso modo i bambini utilizzano delle strategie per apprendere dagli altri. “Vedo fare una cosa e la ripeto”. Le competenze imitative hanno il loro fondamento nell’esistenza del nostro cervello dei neuroni specchio (si attivano sia quando una persona compie un’azione, sia quando la vede compiere). Da quando i neuroni specchio sono stati scoperti, un grande e giustificato clamore s'è levato sulla loro importanza. In particolare vi sono state molte ricerche sulla loro evoluzione e sui loro rapporti con l'evoluzione del linguaggio, proprio perché nell'uomo i neuroni specchio sono stati localizzati vicino all'area di Broca. Ciò ha portato alla convinzione (per alcuni la prova) che il linguaggio umano si sia evoluto tramite l'informazione trasmessa con le prestazioni gestuali e che infine il sistema specchio sia stato capace di comprendere e codificare/decodificare. Ormai è certo che tale sistema ha il potenziale necessario per fornire un meccanismo di comprensione delle azioni e per l'apprendimento attraverso l'imitazione e la simulazione del comportamento altrui. In questo senso è opportuno ribadire che il riconoscimento non avviene solo a livello motorio ma con il riconoscimento vero e proprio dell'azione, intesa come evento biofisico (Skoyles, John R., Gesture, Language Origins, and Right Handedness, Psycoloquy: 11,#24, 2000).
Inoltre vi sono anche degli “elementi dichiarativi”, come i genitori e gli amici, che suggeriscono come si fa a fare una determinata azione o compito.
Appunto per queste ragioni, il progetto dei Laboratori Metacognitivi, come strategia di apprendimento, deve essere svolta non solo a scuola con gli insegnanti e i compagni, ma anche a casa con i genitori e i fratelli più grandi.
Quanto detto sin qui dovrebbe esserci di guida proprio sulle metodologie innovative per l’insegnamento.

3.    Il ruolo del Contesto educativo nello sviluppo dei modelli di apprendimento
Il Tutor per gli apprendimenti deve porre molta attenzione alle componenti che costituiscono il contesto educativo e che condizionano fortemente lo svolgimento dei processi di apprendimento e che insieme costituiscono un vero e proprio clima sociale in cui avvengono degli scambi relazionali.
Egli deve tenere presente oltre ai contenuti dell’apprendimento anche la complessità degli argomenti, la modalità di presentazione di questi ultimi che non sono mai neutrali e oggettive, la significatività degli scopi per i quali determinati contenuti sono proposti.
Esiste in letteratura la definizione di curriculum script[1] per indicare l’insieme di obiettivi e di azioni ordinate utili all’insegnamento/supporto di un determinato contenuto che sono strutturate sulla base delle diverse rappresentazioni che il Tutor possiede per presentare i vari concetti della conoscenza in base alle precognizioni degli alunni, giuste o sbagliate che siano.
Tale definizione, che vuol dire letteralmente canovaccio, copione, è stata utilizzata per sottolineare il carattere flessibile e situato di tale competenza e la sua capacità di evolversi nel tempo.
L’ottimizzazione dell’insegnamento/supporto sulle discipline si ottiene con una organizzazione anteriore del lavoro, che però si mantenga flessibile e dinamica, e attenta ai processi di concettualizzazione degli alunni. Si dovranno organizzare la sequenza di attività, i tempi, gli spazi, gli oggetti, i gruppi e i contenuti.
Vi sono tre aspetti da tenere presenti nella gestione del lavoro in Laboratorio. Questi sono:
-    l’apprendimento collaborativo
-    il ciclo della ricerca
-    l’ethos di classe che si costruisce creando un’atmosfera di responsabilità individuale associata a una condivisione comune, il rispetto reciproco, una comunità di discorso e un rituale che preveda delle attività per schemi [2].

4.    La “didattica” metacognitiva e dello sviluppo della personalità
L'approccio didattico metacognitivo è una modalità di insegnamento la cui finalità non riguardano solo l’insegnare a leggere, scrivere e far di conto ma anche a sviluppare nel bambino la consapevolezza riguardo all'attività che sta svolgendo, spingendolo a domandarsi il perché la stia facendo, quando e in quali condizioni sia più produttivo affrontarla. Il principio generale che sottintende a questo approccio è che il bambino eserciti un controllo attivo sul suo processo di apprendimento.
Secondo Dario Ianes, gli insegnanti, che utilizzano la metodologia metacognitiva nella loro pratica educativo-didattica, operano su quattro livelli, tra loro interconnessi, ognuno dei quali con specifiche caratteristiche di analisi e di lavoro educativo-didattico.
Ad un primo livello, gli insegnanti forniscono all'alunno delle conoscenze generali sul funzionamento dei processi mentali, sui meccanismi che li rendono possibili e sulle difficoltà che possono limitarli. Oltre alle strategie per elaborare, conservare e recuperare le informazioni nella memoria, gli obiettivi didattici possono riguardare la riflessione su altri aspetti come l'attenzione, la percezione, i vari tipi di apprendimento, le differenze negli stili di pensiero ecc. La finalità è consentire al bambino di comprendere la complessità della mente umana e, nello stesso tempo, fargli osservare come le attività mentali non sono separate le une dalle altre ma sono tra esse in relazione. Ad esempio, è possibile insegnare al bambino a differenziare tra tipi diversi di attività cognitive. Come suggeriscono operativamente Cornoldi e Caponi, attraverso la compilazione di alcune schede didattiche gli alunni possono essere invitati a riflettere sulla differenza tra ciò che significa associare un disegno, un colore o una scritta (ad esempio, mare) a delle parole, che cosa questi elementi ci ricordano (ad esempio la scritta mare ci ricorda l'estate) e che cosa contengono (ad esempio il mare contiene i pesci). È necessario che gli alunni comprendano che le tre diverse attività provengono dalla mente, struttura che è predisposta anche per farci sognare, immaginare, pensare, provare emozioni.
Ad un secondo livello, le attività relative alla metacognizione sono indirizzate all'autoconsapevolezza del proprio funzionamento cognitivo. L'approfondimento a livello individuale può presentare la difficoltà inerente alla novità del compito proposto dall'insegnante, in quanto gli alunni sono indirizzati prevalentemente al raggiungimento di abilità esterne al sé (ad esempio, imparare a fare l'addizione). In questa fase, il dover assumere contemporaneamente il ruolo di osservatore e osservato può far emergere delle difese da parte degli alunni. Infatti, accettare, ad esempio, l'esistenza di propri limiti, nell'ambito di una prestazione cognitiva, potrebbe mettere in discussione il livello di autostima. Diventa perciò estremamente importante che l'adulto educatore fornisca all'alunno un'informazione di ritorno (feedback) in cui sia presente la piena accettazione dell'altro come persona, indipendentemente dal risultato positivo o negativo delle sue prestazioni. È necessario, a tal fine, organizzare delle situazioni in cui, attraverso la guida dell'insegnante, l'alunno assuma la piena consapevolezza dei suoi errori e delle sue riuscite. Se l'obiettivo riguarda il riconoscere l'esistenza nei propri stati emotivi di problemi legati alle paure, si può chiedere al bambino di compilare un elenco di quelle da lui provate e subito dopo discutere quando è più giusto provarle e quando di meno. Il confronto con gli altri compagni potrà aiutare ognuno a rendersi conto dell'esistenza di modi diversi, o simili, di vedere le varie situazioni (si veda, ad esempio, il nostro laboratorio sulle Emozioni: https://www.facebook.com/cadskole/posts/703819936427479:0)
Al terzo livello metacognitivo, gli insegnanti suggeriscono ai bambini l'uso di strategie attive di autoregolazione dei propri processi conoscitivi. L'autoregolazione dei processi cognitivi passa attraverso 5 fasi: 1) chiarirsi l'obiettivo del processo; 2) darsi delle autoistruzioni; 3) raccogliere dei dati durante lo svolgimento del processo e valutarli; 4) confrontare i dati con gli obiettivi; 5) valutare il processo: se il risultato è negativo si possono applicare delle correzioni, modificando la strategia in corso.

5.    I processi cognitivi di controllo
I processi cognitivi di controllo possono essere insegnati sia come un'abilità per imparare a studiare, sia per spiegare i contenuti di una disciplina specifica. Per imparare delle strategie di apprendimento legate al saper studiare, bisogna conoscere innanzitutto il proprio grado di motivazione, le modalità in cui organizzare il lavoro personale, quindi riconoscere l'esistenza di un problema, attivare delle conoscenze precedenti, integrare le varie informazioni e via via generare alternative per la risoluzione del problema. È necessario anche riflettere sul proprio stile cognitivo per elaborare l'informazione, ad esempio, in modo sistematico o intuitivo, globale o analitico, impulsivo o riflessivo, verbale o visuale. Per studiare bisogna anche concentrarsi e, per raggiungere tale finalità, si deve imparare a prestare attenzione a quanto si sta leggendo, ad esempio rilevando le informazioni più importanti di un testo sottolineando o facendo altri segni di fianco al testo con la matita, oppure aiutandosi con la costruzione di mappe mentali o concettuali che riassumano tutte le informazioni legate ai concetti presenti in quel testo.  
Una strategia di autoregolazione conosciuta da molti insegnanti è il problem solving, che comprende 6 fasi: 1. definizione del problema; 2. individuazione delle possibili soluzioni (gli alunni sono seduti in cerchio e ognuno esprime la sua idea -brainstorming); 3. valutazione dei vantaggi e svantaggi delle singole soluzioni; 4. scelta della soluzione; 5. applicazione della soluzione; 6. valutazione -nel caso fosse negativa ripercorrere il processo dall'inizio.

6.    Gli stili attributivi motivazionali
Abbiamo visto sin qui come l'insegnante, nella sua attività educativo-didattica, sviluppa delle strategie a vari livelli. Il quarto livello è fondamentale perché qualsiasi intervento a livello metacognitivo dipende soprattutto dall'immagine che l'alunno si è formato di se stesso. Il primo aspetto riguarda le modalità attraverso cui le persone interpretano le cause di quanto accade loro. Un alunno, ad esempio, può attribuire un risultato positivo al suo impegno, alla sua abilità, alla facilità del compito, alla fortuna o all'aiuto esterno.    Le attribuzioni si basano sul locus of control, ossia il luogo da cui parte la responsabilità, l'esterno o l'interno di sé. Così l'impegno e l'abilità dipendono da fattori riferibili a se stessi, la facilità del compito, la fortuna e l'aiuto sono attribuibili all'esterno da sé. Queste diversità degli stati emotivi possono essere influenzati dal grado di stabilità e di controllabilità. L'impegno personale è instabile ma controllabile; il possesso di abilità relative ad un compito e la facilità o difficoltà dello stesso sono stabili ma incontrollabili; la fortuna è instabile e incontrollabile; l'aiuto è instabile e controllabile.
Pertanto, uno stile attribuzionale può caratterizzare un alunno: con un'alta attribuzione verso l'impegno -lo stile più funzionale all'apprendimento-; con un'alta attribuzione all'abilità -Riesco perché sono bravo quindi non serve che mi impegni-; con una bassa attribuzione all'abilità -Non diventerò mai capace, quindi sono un fallito-; con un'alta attribuzione fatalistica -Le cose vanno come vanno e non si possono controllare-. In genere, in caso di successo la causa dipende o dal nostro impegno o perché siamo bravi, mentre se non riusciamo tendiamo a dire che il compito era difficile oppure che siamo stati sfortunati. Lo stile attributivo non è innato, ma è appreso e il suo sviluppo è influenzato anche dal contesto scolastico, oltre a quello familiare. Per i bambini che hanno collezionato molti insuccessi l'insegnamento più utile, a livello metacognitivo-motivazionale, riguarda il far porre insieme l'impegno, l'uso di strategie e una prestazione efficace. In mancanza di questa integrazione i risultati continuano ad essere attribuiti alla mancanza di abilità o a fattori esterni e incontrollabili, e non allo scarso impegno, all'assenza di strategie o a fattori momentanei.

7.    Il senso di autoefficacia
Insieme ad uno stile attribuzionale, l'alunno deve possedere anche un senso di autoefficacia, ossia la capacità di autoosservare il proprio successo mentre si esegue un compito, e una buona autostima per facilitare il lavoro scolastico. L'insegnante contribuisce allo sviluppo di queste variabili individuali, confermando all'alunno il valore che possiede come persona, indipendentemente dai suoi successi o insuccessi.
Lo stile attribuzionale, l'autoefficacia e l'autostima danno un forte impulso allo sviluppo della motivazione ad apprendere. La motivazione può essere intrinseca, ossia legata ad aspetti di interesse personale, oppure estrinseca, in quanto rinforzata dall'esterno. Nel primo caso le attività didattiche devono essere costruite cercando di tener presenti gli interessi degli alunni e gratificando il loro impegno che, attraverso un circolo virtuoso, potenzia sempre più la loro motivazione. Nel secondo caso, l'intervento dell'insegnante tende a far sviluppare la motivazione rinforzando positivamente tutte le risposte dell'alunno che si direzionano verso un obiettivo specifico.
In conclusione, un intervento fondato sulla metacognizione deve tener presente il ruolo del gruppo dei coetanei, sviluppando, come afferma Comoglio, degli obiettivi educativi di collaborazione, solidarietà, responsabilità e relazionalità riconosciuti efficaci per una migliore qualità dell'apprendimento. A livello didattico l'insegnante organizza un apprendimento cooperativo nel piccolo gruppo e valorizza anche la figura del tutor, ossia un alunno che insegna ad un altro la competenza o l'abilità che conosce meglio.

8.    Il modello di apprendimento esperienziale
L’apprendimento esperienziale (Experiential Learning) costituisce un modello di apprendimento basato sull’esperienza, sia essa cognitiva, emotiva o sensoriale. Il processo di apprendimento si realizza attraverso l’azione e la sperimentazione di situazioni, compiti, ruoli in cui il soggetto, attivo protagonista, si trova a mettere in campo le proprie risorse e competenze per l’elaborazione e/o la riorganizzazione di teorie e concetti volti al raggiungimento di un obiettivo. L’apprendimento esperienziale consente al soggetto di affrontare situazioni di incertezza sviluppando comportamenti adattivi e migliorando, nel contempo, la capacità di gestire la propria emotività nei momenti di maggiore stress psicologico. Consente inoltre di sviluppare le proprie abilità di problem solving, anche attraverso l’abilità creativa, e di far acquisire autoconsapevolezza mediante auto-osservazione ed etero-osservazione al fine di ridefinire eventuali atteggiamenti inadeguati e di valorizzare i comportamenti costruttivi. L’esperienza così acquisita diviene patrimonio di conoscenza del soggetto e costituirà il nuovo punto di partenza di ulteriori evoluzioni.
A livello epistemologico, possiamo collocarne la fonte in John Dewey. Secondo lo scienziato americano (John Dewey, Esperienza e educazione, La Nuova Italia, 1993), l’apprendimento è un processo nel quale si integrano l’esperienza e la teoria, l’osservazione e l’azione. Infatti, chi apprende utilizza l’osservazione per orientare l’azione in modo consapevole. L’avvio del processo è dato dall’impulso, che alcuni autori definiscono motivazione. La fine del processo è data dal giudizio finale che pone la riflessione per gli orientamenti futuri. Landry sottolinea come il processo circolare porti ad un’identificazione dell’origine con lo scopo (F. Landry, Vers une teorie dell’apprentissage ecpèrientiel, in La formation expérientielle des adults, coordonné par B. Courtoi et G. Pineau, Recherche en Formation Continue, Ministère de Travail, de l’Emploi et de la formation professionnelle, Délégation de la Formation professionelle – La documentation française, Paris, 1991, pp. 21-28).
Nell’Experiential Learning, l’apprendimento ha una dinamica a spirale in cui l’impulso originale si trasforma progressivamente. Possiamo distinguere nel processo di apprendimento delineato da Dewey tre fasi significative:
1. la prima fase è relativa all’osservazione;
2.  la seconda fase è relativa alla ricerca di conoscenze già acquisite tramite esperienze simili già vissute nel passato;
3.  la terza fase è costituita dal raffronto tra le esperienze vissute e il contesto attuale, da cui genera un giudizio.
Anche la ricerca di Kurt Lewin si è incentrata, in particolare, sul contributo apportato dall’esperienza e dall’azione nella formazione dei concetti: l’integrazione tra teoria e pratica è necessaria ai fini dell’apprendimento. Infatti, egli affermava che niente è più pratico di una buona teoria, proprio a significare l’importanza di entrambe le componenti ai fini della riflessione. Ancor più tale integrazione è facilitata nelle dinamiche di gruppo in cui l’apprendimento nasce dal confronto tra le esperienze vissute del gruppo e le conoscenze teoriche. In tal modo, l’approccio esperienziale favorisce il formarsi di riflessioni e azioni in una continua tensione dialettica.
Infine, possiamo citare l’esperienza di David A. Kolb (David A. Kolb, Experiential Learning experience as the source of Learning and Development, Englewood Cliffs, NJ, Prentice Hall, 1984) che ipotizza la natura dell’apprendimento come processo durante il quale la conoscenza si sviluppa mediante l’osservazione e la trasformazione dell’esperienza. Tale processo si compone di quattro fasi:
1.  la fase delle esperienze concrete, in cui l’apprendimento avviene attraverso le percezioni e quindi come interpretazione personale di esperienze;
2.  la fase dell’osservazione riflessiva, in cui l’apprendimento deriva invece dalla comprensione dei significati tramite l’osservazione e l’ascolto;
3.  la fase della concettualizzazione astratta, nella quale l’apprendimento deriva dall’analisi e dall’organizzazione logica dei flussi di informazioni;
4.  la fase della sperimentazione attiva, in cui l’apprendimento è il risultato di azione, sperimentazione e verifica di funzionamento ai fini dell’evoluzione o di possibili cambiamenti.
Nell’esperienza delle processualità scientifiche insite nel nostra Laboratorio Metacognitivo possiamo ritrovare il pensiero di tutti e tre gli autori citati.

9.    Il modello di Roberto Trinchero (http://www.edurete.org/public/valutazione/corso.it)
Nell’esperienza di Roberto Trinchero, le riflessioni sulle modalità di costruzione di competenze, si possono collegare ai modelli di apprendimento esperienziale di tipo sequenziale. Gli autori si rifanno ad un modello di apprendimento attivo in cui l'allievo svolge attività “autentiche” (ossia tratte da problemi concreti riferiti a contesti reali) e che prevede l’interazione degli allievi in un contesto sociale, a cui partecipano l'insegnante e i compagni, all’interno del quale l’esperienza assume significato anche attraverso processi di negoziazione sociale [Quaglino, 1985, 100; Nune, Fowell, 1996]. Tale modello prevede un processo di apprendimento di tipo circolare, basato su cinque momenti caratteristici, come illustrato nella figura(Fonte: Trinchero, edurete.org).
Nello stesso modo anche le esperienze legate al Laboratorio Metacognitivo di CAD Skolè si ispirano a tale modello.

10.  La Teoria Generale dei Sistemi
Un ultimo punto da sottolineare nel modello dei Laboratori Metacognitivi di CAD Skolè è la logica comunicazionale sistemica ad esso sottesa.La teoria generale dei sistemi è “un corpo in continua evoluzione” che apre all’approccio scientifico numerosi settori ed aspetti della ricerca, non affrontabili con gli strumenti della scienza classica e con un approccio esclusivamente meccanicistico.
Storicamente la si può ritenere scaturita da due diversi fattori: da un lato l’esigenza di
riconoscere “scientificità” alle scienze del comportamento -psicopedagogiche e sociali-,
dall’altro, il bisogno delle scienze dei sistemi di elaborare una teoria più ampia che
superasse la divisione e l’isolamento tra le varie discipline (scienze “dure” e scienze
“deboli”).
Il quadro di riferimento è la teoria generale dei sistemi (Bertalanaffy, L. von (1968). General System Theory. Braziller, New York) e la Pragmatica della comunicazione umana elaborata dal gruppo di Palo Alto in California (Watzlawick). Perno della teoria dei sistemi sono i concetti di sistema, totalità, interazione dinamica e organizzazione; il concetto di organizzazione è individuato come principio unificatore fra le varie discipline.
Più marginale è stato l’interesse per l’applicazione di tale approccio a macrosistemi quali la scuola o i Centri per lo sviluppo degli Apprendimenti. Un concetto interessante che riguarda la scuola riguarda l’insegnante creatore di contesti, ovvero il Tutor mediatore degli Apprendimenti (Bateson G., (1972). Verso un’ ecologia della mente. Adelphi, Milano).

11. La definizione dei Contesti di apprendimento e di sviluppo delle relazioni
Il termine di “contesto” nel suo uso più diffuso indica “ciò che sta intorno” e quindi l’ambiente o la situazione entro cui avviene, si genera o può essere compreso ciò su cui stiamo focalizzando la nostra attenzione. Un tale concetto di contesto viene concepito come indipendente dagli elementi cui fa da contesto, quasi come un tessuto, una cornice che avvolge un oggetto.
L’insegnante/il Tutor può definirsi “creatore di contesti” relazionali molteplici e in evoluzione.
In questa funzione, può far ricorso a strumenti quali l’educare alla ricezione, ossia l’imparare ad ascoltare e ad osservare, includendo se stessi dentro il campo d’osservazione, ricordandosi della relatività e soggettività del proprio punto di vista e il Meta-comunicare.
Il meta-comunicare ci richiama alla mente altri processi a livello –meta, come la metacognizione, di cui si è parlato più sopra.
La scuola ovvero il Centro CAD Skolè per il supporto agli Apprendimenti diventa, quindi, il luogo dove, grazie alla reciproca influenza fra docenti/Tutor e alunni, si impara a pensare, ad esercitare un giudizio critico e ponderato, ad esprimere un'opinione con ragionevolezza e rigore scientifico.
L'ambiente della classe –alla stregua del Laboratorio Metacognitivo ideato da CAD Skolè-  dovrebbe essere ricco di stimoli culturali, di relazioni umane, un luogo dove viene incentivato il confronto delle/sulle idee. Quando si crea questo clima, con opportuni interventi personalizzati, il docente/o il Tutor mediatore per gli Apprendimenti può entrare in relazione con gli alunni in modo equilibrato e sereno.

12. Conclusione
Infatti, così come fa un regista, l’insegnante o il Tutor mediatore per gli Apprendimenti a CAD Skolè sceglie innanzitutto il “luogo” in cui rappresentare il copione prescelto, dando il significato culturale all’apprendimento. In seguito, seleziona lo sfondo, ossia l’atmosfera adeguata basata su basato su reciprocità, collaborazione e responsabilità individuale. Inoltre, va ad occuparsi delle necessarie impalcature (metodologie, i tempi e le modalità di lavoro, le forme di organizzazione, i tipi di raggruppamento degli alunni). In questo discorso, andiamo a collocare la didattica laboratoriale basata non soltanto sul fare e sull'imparare a fare lavorando con gli altri, ma anche sul discutere con gli altri. Vuol dire focalizzarsi sull'importanza dell’apprendimento cooperativo (cooperative learning), un tipo di strutturazione dell’azione di interdipendenza fra i componenti, in quanto il successo di ogni membro del gruppo contribuisce al successo di tutti. Il “regista” andrà, infine, a mettere in luce le soggettività dei bambini e degli adolescenti, prestando attenzione alle caratteristiche di ognuno di loro: le conoscenze, le abilità possedute, le motivazioni, gli stili cognitivi di elaborazione delle informazioni, le convinzioni. Un’azione del regista maggiormente da risaltare è il suo ruolo di facilitatore affinché gli alunni siano artefici delle proprie conoscenze.




[1] Lenhard e Putnam, 1986
[2] Brown A., Campione J., 1994 – Guided Discovery in a Community of Learners in K. Mc Gilly

venerdì 18 dicembre 2015

Dipendenza dai Social Media: Trappola o desiderio di rivincita sociale? di Salvatore Sasso


 
 
La recente indagine dell’Associazione Australiana degli Psicologi ha cercato, nel panorama internazionale, di mettere a fuoco gli effetti “deleteri” dei Social Media su adolescenti e adulti.

Nel testo ci occuperemo solo degli adolescenti.

Le conseguenze, infatti, riguardano maggiormente lo stress vissuto dai ragazzi e il grosso rischio che corrono a livello di benessere: il controllo costante dello “Status” degli amici li pone in una situazione di dipendenza che ha i suoi risvolti psicologici nella difficoltà di dormire o di rilassarsi (il 60%), facendoli sentire, talvolta, esausti della connettività.

Il paradosso si evidenzia quando affermano che il loro obiettivo è al contrario di rilassarsi (il 37%). Un dato preoccupante è che almeno il 50% è preoccupato o addirittura geloso, pensando che i loro amici non possano condividere con loro contenuti sulla rete.

I ragazzi (ben il 72%) riconoscono che lo stress si ripercuote sulla loro salute fisica, ma poi solo la metà pensa che sarebbe giusto farsi aiutare.

Emerge, inoltre, che gli adolescenti con alti livelli di ansia, angoscia e depressione ricorrono anche a comportamenti di dipendenza come alcool, fumo e gioco d’azzardo, in maniera preponderante rispetto ai coetanei (il 26%).

E in Italia?

Uno studio pubblicato nel 2013 sugli Stili di vita online e offline degli adolescenti in Emilia e Romagna, a cura di Guarini, Brigli e Genta, affronta le modalità di utilizzo dei media.

La maggior parte dei ragazzi italiani, generalmente, scandisce la propria giornata attraverso l’utilizzo costante dei media. I dati delle ricerche, condotte da Eurispes e Telefono Azzurro sui giovani tra i 12 e i 18 anni, sono significativi. Colpisce non solo il numero degli strumenti utilizzati (TV, PC, Internet, Cellulare, Console) ma anche la quantità di tempo dedicato (Eurispes 2012).

La consuetudine ad essere continuamente “connessi” è facilitata dalla diffusione del computer come strumento portatile e personale e, inoltre, dalla opportunità di poter effettuare l’accesso anche con gli smartphone e i tablet. Da una ricerca di EU Kids Online è emerso che “l’uso di internet è sempre più individualizzato, privatizzato e mobile”: molti degli utenti adolescenti della rete infatti navigano dalla propria camera da letto, dal cellulare o da altri dispositivi palmari (Livingstone et al., 2011, p. 2).

Un aspetto positivo dell’uso di internet viene dalla scuola, anche a seguito dell’evoluzione della didattica. L’introduzione dei mezzi informatici in classe, l’utilizzo della Lavagna Interattiva Multimediale (LIM) e degli e-book come libri di testo sono solo alcuni esempi di come i media e le nuove tecnologie abbiano un peso sempre più rilevante nell’ambito dell’istruzione, nonostante un ritardo che si riscontra nel contesto italiano (si veda il progetto delle classi 2.0). Il fattore ritardo caratterizza il nostro Paese in base alla media europea sia rispetto ad un minore accesso ad internet a scuola sia ad un approccio generale legato alla navigazione tramite dispositivi mobili (Haddon, Livingstone, 2012).

Rimane comunque sempre presente il rischio che la rete possa contribuire a forme di dipendenza tanto che da anni è diffuso in letteratura il termine Internet Addiction Disorder (IAD). In realtà non esiste ancora una definizione univoca e condivisa da parte degli esperti sulle dipendenze da internet, né che un utilizzo compulsivo possa essere problematizzato esclusivamente derivandolo dal tempo trascorso online.

Alcuni ricercatori della rete di EU Kids Online hanno approfondito l’uso “eccessivo” e incontrollato di internet all’interno dei venticinque paesi europei oggetto di indagine, evidenziando che, tra ragazzi e ragazze “pochissimi hanno mostrato un livello d’uso che si può definire patologico” (Smahel, Helsper, Green, Kalmus, Blinka e Ólafsson, 2012). L’Italia, in particolare, si è contraddistinta per la percentuale più bassa di persone (Smahel et al., 2012).

I dati emersi da ricerche nazionali e internazionali hanno comunque creato un dibattito in merito alla fruizione prolungata dei media, ad esempio, per le ricadute fisiche in termini di aumento della sedentarietà e del calo delle ore di sonno. La Società Italiana di Pediatria, in un suo rapporto ha parlato di “adolescenza seduta”, riferendosi appunto ad una generazione che trascorre moltissime ore della giornata in questa posizione, tra la  fruizione della televisione e l’incremento del tempo trascorso online (Tucci, 2012).

Ritornando all’acronimo “IAD”, ossia all’Internet Addiction Disorder, possiamo spiegare che in questa categoria clinica rientra la Cybersex addiction (attività che provoca eccitazione sessuale come la ricerca di materiale pornografico o la frequentazione di chat erotiche), la Cyber relational addiction (bisogno ossessivo di instaurare relazioni amicali o affettive con persone incontrate on-line), l’Information overload (ricerca ossessiva di informazioni) e la dipendenza dai giochi virtuali interattivi.

Nel già citato Rapporto Eurispes del 2012, è emerso, inoltre, che quasi un ragazzo su 5 avverte irrequietezza e nervosismo quando non può accedere alla Rete e che più del 17% dei giovani ha cercato invano di ridurne l’uso. In un’altra ricerca, sempre del 2012, effettuata presso l’Ospedale di Cremona “Internet Addiction Disorder Prevalence in an Italian Student Population” è stato trovato che il 94% dei fruitori di Internet fa un uso normale del mezzo, il 5% è moderatamente dipendente, lo 0,79%  è gravemente dipendente.

I dati, considerate le premesse, sembrerebbero piuttosto ottimistici.

L’Associazione Professionale Americana degli Psichiatri (APA) che ha redatto il Dsm-V (l’ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), ha deciso di non inserire tra le categorie diagnostiche l’Internet Addiction Disorder; senza trascurarne l’intensità, ha sostenuto che vengano svolti ulteriori approfondimenti in merito a tale fenomeno.

L’lnternet Addiction Disorder (IAD) si riferisce così ad un uso eccessivo di Internet (oltre le 40 ore settimanali), è spesso correlato a importanti problemi sociali e relazionali ed è capace di generare veri e propri sintomi di astinenza: una persona, che inizialmente avverte solo il bisogno di aumentare il tempo trascorso on line, in una fase successiva non riesce più a sospendere, o quanto meno a ridurre, l’uso di Internet e, quando tale uso incontrollato invalida la qualità delle sue relazioni interpersonali, ne deriva un ritiro sociale, che va a compromettere il suo “funzionamento” nell’area sociale, affettiva, lavorativa o sessuale.

Nonostante tali osservazioni, come accennato più sopra, non c’è una definizione condivisa della dipendenza da Internet in quanto non può essere considerata uno specifico disturbo psichiatrico, ma un sintomo (o un insieme di sintomi) spesso correlato/i a differenti quadri diagnostici e clinici aventi come matrice comune il mancato controllo degli impulsi.

Nell’ultima parte della mia intervista, vorrei citare un lavoro di ricerca compiuto insieme con Selene Carbone nel 2012. Allora insegnavo Clinica Psicologica e Psicopatologia Psicosomatica nella Facoltà di Psicologia dell’Università di Chieti. Il titolo della ricerca è stato il seguente “Viaggio alla ricerca dell’identità” Processi psicopatologici nell’adolescenza: Internet Addiction Disorder.

L’identità è un compito centrale nella vita di ognuno di noi, che inizia nell’infanzia e si conclude con il culmine della propria vita, ed ha un ruolo cruciale nell’adolescenza, quale tappa fondamentale per lo sviluppo epigenetico che compie un individuo. L’identificazione è necessaria per lo sviluppo sano della persona sin dalla prima infanzia, si pensi al rapporto con la famiglia, da sempre base sicura per l’individuo e cardine per la società; e al ruolo della scuola, fondamentale per la costruzione di una rete sociale solida in cui fare esperienza. Ma la provvisorietà dei valori che accompagna la nostra società non sempre permette all’individuo di identificarsi con la famiglia o con i coetanei per questo si ricercano nuove esperienze, il più delle volte al limite.

Gli adolescenti del XXI secolo, tentano online di definire “chi sono”, utilizzando luoghi del tutto nuovi, quali,Facebook, Twitter, Messenger, Instagram che sono stati collegati ad esplorazione di identità.

Le accresciute pratiche virtuali riducono le distanze, aumentano le informazioni e la comunicazione tra molti, stimolano la creatività, rendendo l’esistenza momentanea ed esaltando i valori “alla moda”. In questo contesto risulta importante essere capaci di discernimento per potersi muovere tra le ambivalenze della realtà e coglierne, più che sia possibile, la verità e il senso, per dirla con Hegel  “come una rosa tra le spine”.

I Social Network, secondo l’ipotesi dell’arricchimento sociale, sono utilizzati sia da coloro che hanno una buona rete sociale e tendono ad arricchirla, sia da coloro che percepiscono di non avere un’adeguata rete sociale e tendono a compensarla attraverso quella online (Valkenburg et al. 2005). In entrambi i casi si tende a mostrarsi con immagini di sé che fanno aumentare la popolarità o a migliorare la propria autostima (Zywica, Danowski, 2008). Interessante nell’uso di Facebook risulta la necessità di cambiare il proprio profilo in relazione a: cambio di relazioni e di interessi, il che potrebbe far immaginare quanto sia facile in rete presentare altre parti di sé e scoprire al tempo stesso se stessi.

La rete consente l’accesso e la condivisione in modo del tutto anonimo, dove il corpo non è visibile e non incontra lo “sguardo dell’altro”, avendo l’opportunità di rappresentarsi e di comunicare attraverso immagini e simboli, fino alla presentazione di sé attraverso le foto. La modalità di comunicazione prevalentemente utilizzata è quella scritta, che non consente di cogliere i gesti, il tono, la postura, oltre a non esserci il turno di parole negli stessi tempi della comunicazione.

La non immediata visibilità consente, pertanto, di generare diverse identità, combinando segni e immagini del tutto nuove, inducendo alla creazione di un corpo assente e invisibile. Dunque, le persone che interagiscono in internet, attivano processi, che compensano l’informazione mancante, che sono facilmente filtrati da meccanismi di proiezione e attribuzione di senso, gratificando le aspettative dell’individuo (Gamba,2009). Una delle aspettative è la possibilità dell’apertura espressiva di parti di sé che nei contesti interpersonali sono inibite. Il comportamento assume differenze significative in relazione al tipo di comunicazione che si intraprende, vi è una maggiore apertura verso l’interlocutore quando si tratta di mantenere rapporti amicali preesistenti, mentre quando vi è un uso della tecnologia per conoscere nuove persone, si tende ad esaltare aspetti di sé reali o ideali e a preservare la sfera emotiva.

Alcuni utenti usano la rete per far luce su parti di sé sopite che una volta sperimentate e consolidate utilizzano nella realtà, mettendo in atto una risposta efficace.

L’adolescente in questa fase della sua vita si pone una domanda: “Chi sono io?”, alla quale non sa fornire una risposta adeguata, per farlo è necessario che prima abbia fatto esperienza nella società, evitando che il malessere esistenziale, la confusione e la mancanza di fiducia in se stessi rendano l’individuo privo di un progetto di vita. La fiducia verso il futuro appare così minore rispetto a quella verso l’ignoto ed è più semplice affrontare il presente, anche nei suoi aspetti meno familiari che le incognite future. E da questa fuga dal futuro, dalle relazioni affettive, familiari e amicali, bisogna partire per ricostituire l’identità.

Il corpo nella nostra epoca assume sempre più le sembianze di un corpo-oggetto o addirittura di annichilimento della dimensione corporea, non curante dell’altro, del rapporto intersoggettivo, insensibile, anestetizzato, in cui il corpo scompare o meglio vive di vita propria. Proprio di quel corpo fondamentale per la conoscenza, per un primo orientamento, per conoscere e per farci conoscere (Buber, 1959).

Nella dipendenza da internet emerge, infatti, la completa estraneità del corpo dell’altro, che si trasforma in un altro virtuale, un altro che prende le sembianze di una qualsiasi entità, di un espressione del pensiero, realizzando le istanze narcisistiche che nella vita reale non trovano una propria collocazione. Ne consegue una perdita dell’intersoggettività, perché nel cyberspazio l’incontro con l’altro è mascherato e idealizzato secondo le mie istanze, i miei desideri, che non trovano un argine, un confine nel materiale rapporto intersoggettivo, finendo nello psicopatologico, nella depersonalizzazione e nella derealizzazione, che conduce involontariamente ad uno stato di alterazione della coscienza e perdita dell’abituale senso di identità personale, definita : Trance Dissociativa da Video-terminale (Caretti, 2000).

Nella comunicazione virtuale c’è la possibilità di esprimere e mettere a nudo parti di sé sopite, il gesto del linguaggio e la sua vibrazione corporea cedono il posto agli emoticons, attraverso i quali si cerca di esprimere emozioni, tono, impeto, dialetto, grido e silenzi. Il corpo in questo modo appare mutilato, non compare se non attraverso immagini attrattive di sé.

Nelle chat-rooms assistiamo a relazioni che, per buona parte, si costruiscono nella mente di chi le vive. L’immagine di sé viene distorta, attraverso il disegno di sé che più collima narcisisticamente con i propri ideali. È molto forte la tendenza dell’immaginazione a creare nell’interlocutore le parti “mancanti” che non conosciamo. Questo tipo di conoscenza, on line, dà la falsa impressione di poter entrare nel contatto intersoggettivo con un’altra persona, dove scompaiono le incertezze e le frustrazioni che si riscontrano nell’incontro con l’altro nella realtà. Domina la sensazione, spesso illusoria, di poter essere compresi e di comprendere, di condividere le emozioni proprie ed altrui, solo con il “click” di un mouse, generando il senso di vuoto e di angoscia.

 In uno scenario interiore, in cui fa da padrone il vuoto, le esperienze dissociative sono sempre più frequenti. La derealizzazione e la depersonalizzazione, consistono nella sensazione di percepire in maniera distorta il mondo esterno. Il mondo appare al soggetto come privo di coloritura affettiva: anche gli ambienti familiari sono avvertiti come estranei. I soggetti quando non riescono a far fronte a situazioni stressanti, preferiscono percorrere un viaggio alla ricerca delle emozioni, rischiando di rimanere intrappolati nella rete. Possiamo definire questo “viaggio”, una fuga dagli imperativi e dalle aspettative della realtà, proprio come quello che Gauguin operò. Il quale, perso nella confusione della società odierna, si rifugia a Tahiti, un luogo incontaminato, dove poter ritrovare la propria identità, ricostruendo il contatto con le emozioni primitive : “per ritrovare la propria identità, bisogna rischiare di persona un viaggio a ritroso in un luogo primitivo”. 

Quindi, secondo un’ipotesi alternativa, il ricorso patologico a determinati comportamenti, può essere interpretato come tentativo di “sentire le emozioni”, tramite esperienze eccitanti. I soggetti affetti da sindrome da dipendenza hanno difficoltà ad esprimere, identificare o descrivere i propri vissuti emozionali e a discriminare gli stati emotivi dalle sensazioni corporee sottostanti. Si possono infine considerare tali forme di dipendenza come una strategia  per migliorare la propria interazione sociale, la cui scarsità sarebbe indotta dall’incapacità di capire l’altro ed il Sé rispetto ad esso.

 

Nel corso di questi anni, si sono moltiplicati  i programmi di prevenzione, diversificandosi progressivamente sia negli obiettivi che nelle strategie.

Le strategie d’intervento conducono a un progressivo coinvolgimento dei ragazzi, sia nell’attuazione che nella progettazione degli interventi stessi.

Storicamente i lavori di prevenzione della salute affidati agli esperti, facevano leva sulla conoscenza, come se bastasse a modificare i comportamenti. Per questo, l’esperto, è stato sostituito con figure durature nella vita di un adolescente, come educatori, studenti più grandi (dispeer education) o coetanei come nella peer education.

 

A livello di cura delle dipendenze patologiche da internet si può citare l’esperienza del Policlinico Gemelli di Roma, che ha istituito uno sportello di comunicazione per i fruitori del web. L’approccio dell’ambulatorio alla dipendenza è multidisciplinare, come l’integrazione degli interventi verso il paziente.

 

Il protocollo di intervento è strutturato in tre passi:

1.        Colloquio iniziale per confermare o meno la diagnosi di dipendenza

2.        Incontri successivi, per individuare la psicopatologia sottostante

3.        Inserimento in gruppi di riabilitazione, al fine di “riattivare” un contatto dal “vivo” con gli altri e di conseguenza esperienze autentiche di condivisione, senso del limite, capacità di attesa e comunicazione non verbale.

Lo stare ore e ore al computer non costituisce una malattia, ma il sintomo di un disturbo, di un’incrinatura intima molto profonda, alla cui base c’è una carenza o affettiva o solo comunicativa.

Il lavoro di aiuto quindi è basato su una serie di colloqui individuali con uno psicologo atti a far emergere piano piano il problema sottostante il sintomo, e poi attraverso una riabilitazione “in team” si prosegue al recupero dell’emotività e dei rapporti. Anche i genitori vengono sottoposti a colloqui, per un immediato recupero delle motivazioni sottostanti.