L'Altra crescita e la relazione educativa: dal cambiamento alla trasformazione
di Salvatore Sasso
La prima rappresentazione del concetto di
crescita richiama alla mente lo sviluppo di una persona dal concepimento in
avanti. Se riportiamo il concetto di crescita nell'ambito della relazione
educatore-educando, possiamo osservare un aspetto più complesso. Le difficoltà
che talvolta emergono, utilizzando questo tipo di analisi, nascono nel
verificare l'assenza nella relazione educativa di una predisposizione
all'"entropia", ossia la possibilità che si crei una nuova ristrutturazione
non stabile e ripetitiva del sistema educatore-educando, che non permette di
cogliere quegli aspetti del processo relazionale che appartengono a entrambi i
membri della coppia all'interno dello spazio educazionale (Prigogine, 1985). Da
una parte, infatti, vengono sottolineati alcuni aspetti
"caratteristici" o meglio "caratteriali" dell'alunno e,
dall'altra, banalizzati alcuni aspetti psicologici dell'insegnante.
Cogliere l'unicità del processo di crescita
significa, al contrario, affrontare globalmente il significato della relazione
educativa.
2.
Un caso
Iniziamo il nostro discorso partendo
dall'analisi di un'esperienza didattica compiuta da un'insegnante.
"Quando x, un bambino portatore di
handicap, frequentò con noi la prima classe elementare, ero già in analisi da
sette mesi, perché dentro di me avevo finalmente maturato la decisione di
intraprendere "quel percorso". Non dimenticherò mai la mattina in cui
con le mie quattro colleghe (insegnanti di un modulo 4 su 3 e insegnante di
sostegno) entrammo in contatto per la prima volta con il suo pianto straziato,
carico di una lacerante angoscia, senza poter decodificare le sue richieste,
senza poter alleviare la sua sofferenza, senza poter instaurare un rapporto
immediato" (Scorcelletti, 1994).
Inizia con queste parole la descrizione del
primo impatto con la realtà scolastica di un bambino di 6 anni la cui diagnosi
clinica era di avere dei disturbi del carattere.
La testimonianza così continua:
"L'insegnante che all'epoca svolgeva la funzione di psicopedagogista ci
aveva dato alcuni suggerimenti da utilizzare in caso di "crisi": fare
una barriera umana intorno ad x che funzionasse da contenimento per lui e da protezione
per gli altri bambini e (suggerimento riguardante ogni situazione) entrare in
relazione con lui gradatamente, una persona alla volta, man mano che lui ne
mostrasse, in qualche modo, il desiderio, senza soffocarlo con le nostre
presenze. Ma quella mattina le cose andarono così: la crisi di x si manifestò
in un'aula vuota del piano e, non essendoci altri bambini da tutelare in quel
luogo, ognuna di noi si trovò direttamente coinvolta nella profonda essenza del
dramma umano che egli proponeva. Non c'era scampo: prendere o lasciare. Da,
l'insegnante di sostegno, sensibile attenta e disponibile sul piano empatico,
era come un pulcino spaurito che doveva fare i conti con qualcosa di troppo
grande; Gi, un'altra insegnante del team, leggendo il panico negli occhi
di Da, prese subito sotto la sua materna protezione sia Da che x,
si avvicinò e si candidò a entrare in relazione con lui per prima; Gi
riesce ad essere accogliente senza fatica e senza rimanere troppo coinvolta
nelle angosce dell'altro, salvando la sua serenità di fondo. Io (La),
inserita nello stesso gruppo di insegnanti, guardavo la scena dalla porta
dell'aula; anche Ti, la quarta insegnante del modulo, si avvicinò e, da
incurabile "altruista", assunse subito il ruolo di prendere i calci e
i pugni di x. Ti è un pò come Gi, ma anziché abbracciare
ed accogliere lei si mette a completa disposizione di chi è angosciato fino a
farsi completamente carico del suo dolore. Da, invece, mi si avvicinò titubante,
dicendo: "La barriera, dobbiamo fare la barriera, e poi lì sono in tre,
una alla volta, dovevamo fare una alla volta...!" La guardai con occhi
supplichevoli, lei capì che non era il caso di insistere. Le parole della
psicopedagogista, in quel momento, suonavano nella mia mente come qualcosa di
inadeguato: una barriera al posto di un contatto...!...Rimasi ancora immobile
sull'uscio, non ero in grado di fare nulla, poi una fitta, un forte dolore nel
petto e decisi di ritirarmi nell'auletta del caffè, mi sentivo proprio male. Lì
raccolsi il mio braccio sinistro nel destro, mi abbracciai, il suo pianto
arrivava alle mie orecchie e si mescolava al mio".
La prima osservazione che possiamo desumere,
dopo la lettura di questo caso, riguarda la complessità dello sviluppo di un
bambino, in quanto i cambiamenti devono essere compresi non solo attraverso i
mutamenti della persona, ma soprattutto nella modificazione del campo e delle
relazioni sociali. Il bambino, e non solo il cosiddetto caratteriale, scatena
una dinamica relazionale nel momento in cui propone qualcosa di sé. Bisogna
però tenere presente che, in questo caso, con il suo comportamento il bambino
problematico era se stesso, e ciò gli era possibile perché riconosciuto da una
certificazione medica. A differenza di altri bambini "normali" a lui
era permesso di manifestare ciò che sentiva.
Una seconda considerazione concerne il tipo
di dinamica relazionale messa in atto dal bambino, che non è dipesa solo da ciò
che lui proponeva ma anche dalle caratteristiche psicologiche delle sue
insegnanti.
Quando un bambino domanda qualcosa agli
adulti in relazione ai suoi bisogni, l'insegnante risponde in maniera
proporzionale alle sue possibilità. Se l'insegnante risponde ai bisogni
(cognitivi e emotivi) del bambino fra i due si costituisce un rapporto.
E' possibile però che il bisogno del bambino
tocchi qualche area irrisolta della personalità dell'insegnante. In questo
caso, l'insegnante offre delle soluzioni inadeguate e quindi o si sente
impotente e pronuncia frasi come "con quel bambino non so che fare",
"anche suo padre si comporta in quel modo", oppure rimanda la sua
impotenza al bambino caricandolo di altre responsabilità e può, ad esempio,
dirgli "sei un bambino impossibile", "sei cattivo",
"guarda che fai!".
Nel caso del bambino
"caratteriale" presentato, le insegnanti cercano di capire il bambino
ma ognuna reagisce in un modo differente dalle altre. Da (l'insegnante
di sostegno) non cerca il contatto perché si sente smarrita; Gi
stabilisce un contatto materno; Do rinuncia momentaneamente secondo
quanto aveva detto la psicopedagogista; Ti stabilisce un contatto
rendendo il suo corpo disponibile all'attacco; La cerca un contatto di
tipo psichico, facendo sfumare le due entità psichiche insegnante-alunno,
attraverso uno "scudo protettivo", o mediante quella
"preoccupazione materna primaria" di cui parla D. Winnicot (1958).
3.
Alcune
considerazioni
Si deve comunque tenere presente che
l'esperienza scolastica non può guarire un bambino, ma può essere determinante
nel creare una relazione, momento fondamentale su cui poggia il processo di
crescita. La scuola, pertanto, deve offrire all'alunno la possibilità di
crescere, secondo le sue possibilità e attraverso esperienze non
contraddittorie. Fra il gruppo degli insegnanti e i bambini diviene importante
creare una comunicazione di tipo circolare, in modo che ognuno utilizzi le sue
possibilità e capacità.
Secondo quanto afferma Jerome Bruner (1990)
la condivisione del significato della crescita, legato al processo educativo,
ha luogo all'interno di un gruppo sociale. Secondo questo autore il fattore
principale che aiuta l'uomo nel suo sviluppo, dalla nascita in poi, è la
cultura, ossia un prodotto della "storia" che si svolge all'interno
di una situazione educativa in cui le intenzioni dei partecipanti siano
reciprocamente condivise.
Donald Winnicot (1993), a proposito del
comportamento genitoriale usa l'espressione "sufficientemente buono".
Nello stesso modo possiamo riferirci agli insegnanti "sufficientemente
buoni" quando nella relazione educativa offrono lo stesso spazio agli
alunni, comportandosi coerentemente così come sono loro stessi al fine di farsi
conoscere. Se l'insegnante dovesse recitare una parte sarebbe molto facile
essere scoperto nel momento in cui non usasse alcun trucco, ma sarebbero enormi
le ripercussioni sul significato della relazione.
L'intenzionalità degli atti comunicativi non
possono, quindi, prescindere dalla storia personale degli "attori"
che partecipano al processo di crescita. Non esiste un copione predeterminato
dall'educatore o dall'educando al di fuori della considerazione reciproca delle
emozioni, degli affetti, della propria identità, fisica e psichica.
Il fluire dei sentimenti e delle conoscenze
comporta l'esistenza di una memoria individuale e culturale che imprime
significato al processo di crescita.
All'interno della scuola spesso si osserva
la mancanza di una ri-considerazione storica delle conoscenze e dei livelli
emotivi e affettivi dei soggetti in sviluppo. La storia delle esperienze
educative sono avvolte da un alone burocratico che mette sullo sfondo il
rapporto educatore-educando.
Secondo Jerome Bruner, le persone imparano
ad apprendere quando riescono ad integrare le proprie e le altrui competenze.
Questo processo è possibile attraverso una meta-riflessione, ossia una
riflessione non semplicemente legata a quanto si viene mostrando agli altri, ma
al significato che un sentimento, un'emozione, un comportamento o un'azione
acquista per se stessi. In tal modo si evidenziano le proprie diversità che
vanno colte reciprocamente, senza che vengano messi in atto meccanismi di
difesa per non alimentare eventuali distorsioni nel giudizio.
Questo processo consente di integrare e di
valorizzare le diversità nel singolo individuo e fra i soggetti di un gruppo
sociale, considerando la crescita di una persona mediante la continua
ricostruzione-riflessione tra il passato e gli scopi rivolti al futuro.
Il processo di crescita può essere riassunto
attraverso tre modalità di espressione che convergono verso il concetto
"dell'altra crescita".
La prima modalità riguarda il rapporto tra
ciò che si pensa, si sente e si comunica e ciò che si attualizza mediante le
emozioni, il pensiero e l'azione, nel senso che non esiste una separazione tra
ciò che penso e dico, e il come riesco a comunicarlo agli altri. A questo
proposito Jerome Bruner afferma che quanto una persona dice, pensa o sente non
può essere considerato come una predizione di un comportamento che il soggetto
manifesterà all'esterno, poiché la concretizzazione del fare è legata alle
circostanze ambientali. L'interpretazione di un pensiero o di una emozione è,
dunque, funzionalmente interrelata al significato che l'espressione di quel
pensiero o di quell'emozione assumerà in un determinato contesto sociale.
In quest'ambito è necessario il proprio e
continuo riconoscersi nel rispecchiamento con l'altro, evidenziandone le
differenze. Infatti, solo se si riesce a riconoscere l'altro come diverso da sé
è possibile sviluppare il processo di crescita.
Le difficoltà inerenti al non riconoscere
l'altro come diverso da sé si esprime nel suo rifiuto. Le motivazioni che ne
sono alla base si riferiscono soprattutto alla "incapacità" di una
persona, in un certo momento, di capire come il rifiuto di alcune
caratteristiche dell'altro non hanno un "semplice" riscontro
oggettivo ma derivano da un "complesso" fenomeno psichico attraverso
cui si "proietta", ossia si riversa sull'altro che mi sta davanti
qualcosa della mia diversità che non riesco non soltanto ad accettare quanto a
ri-conoscere.
4.
Un secondo caso
In una esperienza pluriennale svolta nella
scuola elementare al fine di "integrare" un gruppo di bambini, al cui
interno era presente una bambina con un handicap molto grave, si è iniziato a
lavorare con due fondamentali obiettivi. Il primo riguardava il come poter
instaurare una comunicazione significativa con lei e il secondo il come
individuare i suoi bisogni. Seguendo il percorso della crescita sin qui descritto,
l'integrazione è stato un processo che ha riguardato tutti i membri del
gruppo-classe. Il primo aspetto sviluppato è stato centrato sul ri-conoscimento
delle proprie diversità così che la bambina disabile, nonostante la sua
evidente diversità, non è apparsa diversa solo per il suo handicap ma in quanto
persona e, pertanto, non è stata considerata così diversa rispetto al resto del
gruppo (Sasso, 1995).
5.
Alcune
riflessioni
La differenza tra il caso del bambino
"caratteriale" e la bambina cerebrolesa è solo apparente. Nella prima
situazione abbiamo visto un gruppo di insegnanti che sono riusciti, nel tempo,
a creare una relazione fondata sulle loro capacità. Nella seconda esperienza è
stato il gruppo intero, formato dai bambini, dalla bambina disabile, dagli
insegnanti e dall'assistente, a creare delle relazioni circolari, ognuno
integrando le proprie possibilità nel confronto con gli altri. La bambina
disabile, pur essendo stata inizialmente il fulcro del gruppo, via via nel
tempo, ha assunto il ruolo di co-partecipazione all'emergere dei problemi di
crescita in tutti i componenti il gruppo.
Il denominatore comune in entrambe le
esperienze è l'integrazione vista contemporaneamente come un processo di
crescita degli altri e di se stessi.
Il nostro modo di pensare e di sentire, in
base a queste considerazioni, non deve cambiare ma trasformarsi. Mentre il
cambiamento presuppone il passaggio da una stato A a uno stato B per
l'insorgenza di un problema che può disequilibrare una persona o un gruppo
riportandoli ad uno stato di equilibrio, la trasformazione è legata a delle
variabili personali e del contesto i cui caratteri di complessità rendono
sempre "imprevedibili" e "incerte" le relazioni nel gruppo,
di cui fa parte integrante anche l'educatore.
"L'altra crescita" è, dunque, la
crescita della persona che si trova in un gruppo sociale e dello stesso gruppo.
Entrambi si trasformano non in qualcos'altro ma, secondo un sviluppo
multidimensionale, relativamente alle potenzialità presenti in ognuno e nel
contesto sociale, potenzialità che permettono la nascita di relazioni in cui si
intrecciano le diverse modalità di sentire e di pensare, offrendo una base
diversa al processo di crescita.
Le modalità fondamentali legate alle
trasformazioni che si verificano durante il processo di crescita sono la
continuità e la discontinuità. La caratteristica della continuità è la
possibilità di prevedere il cambiamento, mentre la discontinuità opera per
salti ed è più imprevedibile. Spesso nell'ambito della psicologia la
discontinuità rappresenta il sintomo disfunzionale. Se però si focalizza
l'attenzione solo sulla continuità dello sviluppo si rischia di non comprendere
la "diversità", rimanendo in uno spazio concettuale
"convergente" piuttosto che "divergente".
Nell'ambito delle scienze sociali E.C.
Zeeman (1976) ha tentato di applicare un modello matematico che descrive i
fenomeni discontinui: la Teoria delle Catastrofi. Zeeman afferma che "il
mondo è pieno di trasformazioni improvvise e di imprevedibili discontinuità che
richiedono l'utilizzo di funzioni che non sono differenziabili". Il merito
di questa teoria, secondo H.J. Sussman e R.S. Zahler (1978), è di contribuire
al superamento di modelli interpretativi sequenziali che perdono di vista la
complessità di molte situazioni comportamentali.
Riportandoci al contesto scolastico si può
dire che il processo di sviluppo del bambino, quello del gruppo dei bambini e
quello dell'educatore sono inscindibili. La crescita di ogni soggetto,
pertanto, avviene all'interno del contemporaneo processo di cambiamento del suo
gruppo di appartenenza. Spesso si tende, invece, a scindere e isolare il
processo di sviluppo del singolo.
Un concetto che può unire i processi
individuali e del gruppo di appartenenza è il gioco relazionale. L'analisi dei
giochi relazionali consente di verificare l'influenza reciproca tra tutti i
soggetti coinvolti nel processo relazionale (C. Ricci, 1984).
La coevoluzione educatore-educando permette
la costruzione di strutture interattive che sono la risultante del processo di
apprendimento che coinvolge contemporaneamente tutti i giocatori "di quel
gioco" e "di diversi giochi". Diventa perciò fuorviante il
focalizzare la propria attenzione solo su uno dei partecipanti poiché, in
questo caso, si vengono a perdere quegli elementi di adattamento reciproco che
contribuiscono alla determinazione delle dinamiche e dell'evoluzione dei
processi di apprendimento relazionale.
Le
trasformazioni possono essere influenzate o indotte dalle variazioni nel numero
dei giocatori, nel contesto e nelle regole, proposte o imposte. Le difficoltà
relazionali presenti in un contesto coinvolgono, pertanto, contemporaneamente
tutti i presenti.
6.
I determinanti
per “L’altra crescita”
I determinanti che occorrono per sviluppare
"l'altra crescita" sono quattro. Il primo concerne il processo di
integrazione delle proprie e delle altrui diversità. Come si è già detto questo
processo riguarda tutto il gruppo educatori-educandi. Spesso però quando si
lavora tra colleghi insegnanti emergono numerose difficoltà nel constatare le
diversità degli altri. Questa indisponibilità offre poche o affatto occasioni
di confronto sulla conduzione del processo educativo, cosicché si evita di
"mostrarsi" in quanto una riflessione sui propri eventuali errori
metodologici può aprire la strada a semplici valutazioni moralistiche.
L'associazione che viene evidenziata riguarda soprattutto il binomio "diversità
uguale errore". La conseguenza di questo ragionamento, privo anche di una
logica scientifica, rischia di produrre effetti devastanti sul processo di
integrazione di quegli aspetti di diversità fra il gruppo degli alunni e
l'insegnante.
Il secondo determinante riguarda la
motivazione che deve essere finalizzata non solo verso la componente cognitiva
ma anche nei confronti dei sentimenti e delle emozioni. La riflessione sul
processo di crescita nasce nel riconoscere la coesistenza in noi di parti che
ci piacciono e che non ci piacciono. Rispetto alle capacità intellettive,
spesso i bambini e i ragazzi vengono demotivati nel momento in cui si tende a
ricompensare e lodare solo alcuni tipi di abilità, emarginando chi delude le
aspettative di un certo tipo di cultura ed evidenziando le differenze in
termini negativi piuttosto che positivi.
Un terzo determinante che contribuisce allo
sviluppo del processo di crescita racchiude la fiducia e la sicurezza. Entrambi
i processi psicologici si concretizzano solo se la fonte di fiducia e di
sicurezza riconosce l'altro come soggetto indipendente che, possedendo delle
sue competenze cognitive e affettive, può esplorarle con il proprio punto di
vista. A volte, però, accade di osservare alcuni adulti educatori che scindono
il processo di individuazione del bambino da un'eventuale "rete
protettiva" che lo stesso adulto può fornire, perchè quest'ultima, secondo
loro, potrebbe preservare il soggetto di apprendimento dall'assunzione delle
proprie responsabilità. Nel caso del bambino con disturbi del carattere
l'insegnante La tenta questo approccio attraverso un ascolto empatico.
Ma se autoresponsabilizzare l'altro implica
fiducia, la protezione, ossia una sorta di "scudo", o di
"preoccupazione" che l'adulto offre al soggetto in crescita in un
particolare momento del suo sviluppo evitando che egli possa essere
"invaso" da avvenimenti esterni o "pervaso" da angosce
interne, aiuta la formazione del concetto di sé da cui scaturisce la sicurezza
di sé.
Il quarto determinante, la costruzione delle
relazioni, racchiude gran parte di quanto si è analizzato sin qui.
Infine, vorrei mostrare come nell'esperienza
di integrazione, già in precedenza accennata, alcuni elementi significativi, di
cui abbiamo discusso, si siano evidenziati nella discussione con i bambini.
Essi hanno individuato dentro di sé, mediante il confronto nel gruppo, alcuni
concetti fondamentali che sono alla base del processo di crescita: il concetto
di bisogno, di aiuto e di spinta motivazionale interna. I bambini di otto-nove
anni sono riusciti a far emergere i loro bisogni, confrontandoli con quelli
della loro compagna disabile.
7.
Conclusioni
In conclusione, si può affermare che il
processo di crescita inizia alla nascita e si trasforma continuamente. Per
elaborarlo abbiamo bisogno degli altri e soprattutto che possiamo, a tal fine,
essere aiutati dagli altri. E ancora, se le persone non avessero alcun tipo di
bisogno cognitivo, affettivo o relazionale, non potrebbero essere aiutati a
crescere. Insomma, il problema principale del processo educativo può essere
riassunto nel concetto relativo a "L'altra crescita".
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