1. Intelligenza emotiva e cervello emotivo
Nel vasto settore dello studio
delle emozioni abbiamo assistito a due interessanti sviluppi: il primo proviene dall’introduzione del concetto
psicologico di “intelligenza emotiva” di Goleman; il secondo deriva dalla
scoperta dei meccanismi cerebrali delle emozioni, descritti da LeDoux (1996)
nella sua opera “Il cervello emotivo”. Il costrutto di “Intelligenza emotiva” è
stato elaborato da Salovey e Mayer (1983) e deriva dai precedenti concetti di
intelligenza sociale e personale. Nel delineare la sua teoria delle
intelligenze multiple, Gardner (1983) descrisse due forme di intelligenza
personale: quella intrapersonale, che è la capacità di accedere alla propria
vita affettiva, e l’intelligenza interpersonale, ossia la capacità di leggere
gli stati d’animo, le intenzioni e i desideri degli altri. L’autore considerava
i due tipi di intelligenza personale come abilità biologicamente fondate di
elaborare le informazioni, una diretta verso l’interno e l’altra verso
l’esterno, intimamente intrecciate: l’autoconsapevolezza emotiva e l’empatia.
Queste fondamentali abilità dell’intelligenza personale sono centrali nel
costrutto di intelligenza emotiva, che Salovey e Mayer definirono
originariamente come “la capacità di monitorare le proprie e le altrui
emozioni, di differenziarle e di usare tale informazione per guidare il proprio
pensiero e le proprie azioni”. Questa definizione implica l’idea che il sistema
affettivo funziona in parte come sistema di elaborazione delle informazioni e
delle percezioni; infatti Salovey e Mayer affermano che “i processi sottostanti
l’intelligenza emotiva vengono attivati quando l’informazione affettiva entra
per prima nel sistema percettivo”. Oltre alla consapevolezza dei propri
sentimenti soggettivi, l’intelligenza emotiva comprende la percezione e la
considerazione dei comportamenti emotivi non-verbali, incluse le sensazioni
corporee evocate dall’attivazione emozionale, le espressioni facciali, il tono
della voce e la gestualità esibita dagli altri. Però vi sono differenze
individuali nella capacità delle persone di elaborare ed usare l’informazione:
persone con elevati livelli di
intelligenza emotiva riescono facilmente ad identificare e a descrivere i
sentimenti in se stessi e negli altri, a regolare efficacemente gli stati di
attivazione emozionale, ed usano generalmente le emozioni in modo adattivo (Salovey,
1983; Salovey e Mayer, 1990). Le componenti centrali dell’intelligenza emotiva
mostrano alcune convergenze teoriche con molti concetti psicoanalitici, fra cui
quello freudiano di emozione come segnale. In “Inibizione, sintomo e angoscia”
(1926), Freud ipotizzò che l’ansia fosse un’informazione generata dall’Io sul
suo stato di sicurezza e sul bisogno di mobilitare le difese contro pulsioni e
fantasie bloccate; egli, inoltre, incluse in questa concezione anche gli
affetti depressivi in quanto essi segnalano all’Io la perdita dell’attaccamento
ad una persona amata e gratificante. Successivamente, altre teorie psicoanalitiche,
hanno esteso ulteriormente la funzione di segnale ad un’ampia gamma di affetti
( Jacobson, 1994), ma, nonostante il riconoscimento dell’aspetto di
informazione e di segnale per quanto riguarda gli affetti, Freud (1915) non ha
mai abbandonato la sua idea originaria che gli affetti derivino dalle pulsioni.
Attualmente, nella psicoanalisi contemporanea, gli affetti vengono però
considerati come fattori motivazionali primari di un sistema basilare che
valuta e comunica lo stato del sé in ogni momento nel corso del tempo ( Jones,
1995; Spezzano, 1993); infatti, questi sono considerati come l’origine della soggettività umana: la
capacità di provare i sentimenti è la caratteristica principale
dell’intelligenza emotiva (Gardner, 1983). Un altro concetto fondamentale che
converge con il costrutto di intelligenza emotiva è quello di “ psychological
mindedness”, che si riferisce alla “capacità individuale di saper valutare le
relazioni fra pensieri, sentimenti e azioni, con l’obiettivo di imparare i
significati e le cause delle proprie esperienze e dei propri comportamenti” (Appelbaum,
1973). La capacità di pensare e riflettere sugli stati emotivi propri e altrui
viene indicata da Fonagy e Target (1991) come “funzione riflessiva”, la quale
richiede la capacità di formare delle rappresentazioni mentali di emozioni ed
altre esperienze, ad esempio la mentalizzazione, comprese le rappresentazioni
del mondo mentale degli altri. Tale funzione evolve precocemente nella vita
quando il bambino sviluppa una “teoria della mente” ed è strettamente legata al
raggiungimento delle abilità di regolazione affettiva. Come notato in
precedenza, la definizione di Mayer e Sallovey (1997) dell’intelligenza emotiva
sottolinea sia la capacità di riflettere e pensare sui sentimenti che la capacità
di regolare le emozioni. Come per l’intelligenza emotiva, gli individui variano
nella misura in cui impiegano la funzione riflessiva; tali differenze, possono
rappresentare delle differenze qualitative nella mappatura rappresentazionale
delle emozioni e dell’esperienza di sé ( Fonagy e Target, 1997). Quindi, esiste
una relazione molto forte fra aspetti del costrutto dell’intellligenza emotiva
e quello di derivazione psicoanalitica di “alexithymia”, quest’ ultimo
collegato con un deficit nella rappresentazione mentale delle emozioni e con
una limitata capacità di usare gli affetti come segnali comunicativi.
2. La personalità psicosomatica
Verso la fine
degli anni ’50 del secolo scorso, Marty e M’Uzan proposero, accanto alle
classiche descrizioni di personalità nevrotica e psicotica, quella di una
“personalità psicosomatica”, caratterizzata da ipernormalità ed adattamento
conformista all’ambiente, e da un particolare stile cognitivo chiamato
“pensiero operatorio”, analogo a quello postulato da Piaget, che risulta
naturale come fase di sviluppo cognitivo del bambino, ma che nell’adulto si
traduce in un deficit che colpisce l’elaborazione simbolica delle emozioni, e
canalizza l’espressione emotiva a livello somatico. Anche in questo caso, come
precedentemente elaborato da Ruesch nel 1948, che individuò nel paziente
psicosomatico quella che chiamò “personalità infantile”, caratterizzata da
dipendenza e passività, conformismo sociale ed ideali irraggiungibili, tendenza
all’azione corporea e mancanza di corrispondenza tra espressione verbale/ non
verbale e vissuto emotivo, e netta difficoltà a separarsi dalla figura materna,
venne attribuita particolare importanza alle relazioni oggettuali tra madre e
bambino.
3. Il costrutto dell’alessitimia
Negli anni ’70,
le teorizzazioni di Marty e M’Uzan, trovarono conferma quando Sifneos e Nemiah,
riscontrarono in svariati pazienti psicosomatici una caratteristica comune, e
cioè la difficoltà a descrivere le proprie emozioni ed un’attività fantastica
povera, appunto tipica del “pensiero operatorio”. I due autori coniarono per
questa condizione lo specifico termine di “alessitimia” (dal greco “mancanza di
parole per le emozioni”), per designare un tratto stabile della personalità che
interagisce con gli agenti stressanti come fattore aspecifico verso la
somatizzazione e lo sviluppo di malattie. L’alessitimia, potrebbe essere
collocata lungo un ideale continuum, che rappresenta la difficoltà nel
riconoscere, comprendere e descrivere le esperienze emozionali, verso l’estremo
come “meno grave” assieme all’ “inibizione emotiva”, e all’opposto le più gravi
condizioni di “anaffettività” e “anedonia”. Attualmente gli indicatori del DCPR
(Diagnostic Criteria for use in Psychosomatic Research) per la diagnosi di
alessitimia comprendono diverse condizioni, quali:
1.
incapacità di descrivere in maniera appropriata
le emozioni;
2.
tendenza a focalizzare la conversazione sui
dettagli più che sul vissuto emotivo;
3.
mancanza di un ricco mondo fantastico;
4.
contenuto del pensiero associato a eventi del mondo
esteriore;
5.
inconsapevolezza delle reazioni somatiche che
accompagnano gli stati emotivi;
6.
occasionali comportamenti affettivi, spesso
inappropriati.
Si tratterebbe
quindi di un deficit “sia nel dominio cognitivo-esperienziale dei sistemi di
risposta emotiva sia del livello della regolazione interpersonale delle
emozioni” (Taylor, Bagby e Parker, 1997, 2000). Questi due aspetti salienti
del costrutto devono essere colti nel loro stretto collegamento, poiché,
essendo incapaci di identificare accuratamente e di “dare un nome” ai propri
sentimenti soggettivi, le persone alessitimiche hanno difficoltà a comunicare
verbalmente agli altri il proprio disagio emotivo e non sono in grado di usare
le altre persone come fonti di feedback, e/o di aiuto nella regolazione dello
stress. La scarsezza della vita immaginativa limita inoltre la loro possibilità
di modulare l’ansia e le altre emozioni negative, attraverso i ricordi, le
fantasie, i sogni ad occhi aperti, il gioco, ecc. Tale incapacità di
verbalizzare le proprie emozioni non va considerata quindi come una difficoltà
di tipo esclusivamente espressivo, ma come una vera e propria limitazione nella
possibilità di elaborare le emozioni e di costruire un proprio mondo interno.
Nel modello cognitivo- evolutivo delle emozioni elaborato da Lane e Schwartz (1987),
i soggetti alessitimici si troverebbero ai primi stadi sensomotori di
organizzazione e consapevolezza delle esperienze emozionali; queste vengono
esperite essenzialmente a livello di sensazioni corporee e di tendenza
all’azione; l’esperienza “psicologica” delle emozioni è limitata e poco
sofisticata, le descrizioni verbali sono spesso stereotipate, scarsa è la
consapevolezza della complessità e multidimensionalità delle proprie esperienze
emozionali. Al contrario degli “alessitimici”, gli individui “emotivamente
intelligenti”, hanno una buona autoconsapevolezza emotiva, sanno riconoscere
precocemente i segnali fisiologici che accompagnano l’emozione, hanno capacità
di autointrospezione e autoregolazione. Essi non tendono a reprimere i loro
vissuti, ma fanno il primo passo verso una gestione adattiva ed efficace delle
emozioni mediante un’attribuzione di significato a ciò che gli accade, resa
possibile dalla mediazione operata dal linguaggio con cui si può definire ciò
che si prova. Questa operazione è fondamentale perché dota di senso
l’esperienza emozionale, la arricchisce con la “valutazione cognitiva”, come ad
esempio in termini di pericolosità, novità, capacità di farvi fronte, possibili
risposte, relazione con i propri valori e le norme sociali, e inoltre la
collega più saldamente con i propri vissuti e con la storia soggettiva, per
aprire la strada alla comunicazione interpersonale. Diverse ricerche hanno
mostrato come la comunicazione emotiva interpersonale abbia delle ripercussioni
positive sullo stato di salute dell’individuo, in presenza di lutti o
situazioni traumatiche, in quanto protegge dagli “effetti a lungo termine” del
disagio emozionale, dando la possibilità di rivivere e rievocare le emozioni.
Secondo Taylor “bisogna sottolineare che l’alessitimia non è concettualizzata
come un fenomeno categoriale (del tipo “tutto o niente”), ma come un costrutto
dimensionale (o tratto di personalità) che è distribuito in modo normale nella
popolazione generale”. Attualmente l’alessitimia, è considerata uno dei fattori
di rischio che sembrano accrescere la suscettibilità alla malattia
psicosomatica. Oltre che da fattori genetici, neurofisiologici e intrapsichici,
gli stili di comunicazione sono influenzati da fattori socioculturali,
dall’intelligenza e dai modelli familiari. Per esempio, Leff ha trovato che nei
paesi sviluppati le persone mostrano una maggiore differenziazione degli stati
emotivi rispetto a coloro che vivono in paesi in via di sviluppo e che alcune lingue
impongono limitazioni all’espressione delle emozioni. Secondo McDougall
l’alessitimia è una difesa straordinariamente forte contro il dolore psichico,
mentre Krystal, invece di concettualizzare l’alessitimia come una difesa, la
attribuisce ad un arresto dello sviluppo affettivo a seguito di un trauma
infantile, o ad una regressione nelle funzioni affettivo-cognitive dopo un
trauma catastrofico nella vita adulta.
4. Le ipotesi neurofisiologiche
dell’alessitimia
Sono state
proposte anche alcune teorie neurofisiologiche per l’origine etiologica
dell’alessitimia; l’ipotesi di McLean si basava sul fatto che le emozioni
vengono incanalate direttamente negli organi corporei attraverso le vie
neuroendocrine e autonome; Nemiah ha approfondito questa posizione sostenendo
che l’alessitimia è provocata da un difetto neurofisiologico che influenza la
modulazione da parte del corpo striato dell’input proveniente dal sistema
limbico e diretto al neocortex. Inoltre gli studi sulla specializzazione
emisferica, compreso il modo in cui il cervello integra il linguaggio affettivo
e propositivo, hanno portato all’idea che l’alessitimia sia dovuta ad una
disfunzione dell’emisfero destro o ad una carenza nella comunicazione
interemisferica. A questo proposito l’osservazione di Hoppe della comparsa di
caratteristiche alessitimiche in pazienti con “cervello scisso”, i quali
riferiscono scarsità di sogni e fantasie e mostrano un deterioramento della
funzione simbolica. Un danno precoce all’emisfero destro, come dimostrato da
Weintraub e Mesulam, può interferire seriamente con l’acquisizione di capacità
per le quali tale emisfero è ritenuto specializzato; infatti, essi sostengono
che “come l’emisfero sinistro controlla lo sviluppo della competenza
linguistica, così l’integrità dell’emisfero destro potrebbe essere essenziale
all’emergere di capacità interpersonali” e di quella che Hymes ha definito
“competenza comunicativa”.
Sembra che alla
base dell’empatia e della capacità di rendere coscienti i propri vissuti
emotivi, ci siano processi di sintonizzazione-desintonizzazione che
caratterizzano le prime fasi del rapporto madre- bambino e che consentono al
piccolo di sentirsi compreso. Infatti, una prolungata assenza di sintonia
emozionale tra genitori e figli impone al bimbo un costo enorme in termini
emozionali; quando un genitore non riesce mai a mostrare alcuna empatia con una
particolare gamma di emozioni del bambino, come gioia, pianto, bisogno di
essere cullato, questi comincia ad evitare di esprimerle forse anche di
provarle. In questo modo, numerose emozioni cominciano ad essere cancellate dal
repertorio delle relazioni intime soprattutto se, anche in seguito durante
l’infanzia, questi sentimenti continuano ad essere apertamente scoraggiati.
5. Conclusioni
Alcuni studiosi
hanno suggerito, infine, che in aggiunta ad una disfunzione organica
responsabile dell’alessitimia, esista anche uno specifico ambiente sociale-evolutivo
che inibisce l’espressione emotiva, ipotesi che sembra confermata dalla
presenza di un numero maggiore di uomini alessitimici rispetto alle donne;
infatti, agli uomini più che alle donne si insegna ad esprimere poco le proprie
emozioni e a sviluppare capacità legate più alla vita pratica, e lavorativa,
che non alla sfera affettiva. Pertanto, accanto ai fattori neurobiologici vi
sono in gioco nell’etiologia dell’alessitimia, anche variabili di tipo socioculturale.
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