L'autismo è un disturbo del neurosviluppo la cui origine è data dalla coesistenza di una predisposizione genetica e di fattori di rischio ambientali. Tale binomio provoca un’alterazione a livello sia cognitivo sia comportamentale. L’esordio avviene molto precocemente, nei primi tre anni di vita e nel caso di bambini e ragazzi ad alto funzionamento l’inizio, con una diagnosi a carico, può avvenire anche in un’epoca successiva. Esiste comunque una prevalenza dei soggetti di genere maschile di un quarto più alta rispetto al genere femminile. Tali dati hanno un riflesso sia a livello nazionale che internazionale.
Se ci riferiamo anche alla prognosi, la gravità del
quadro diagnostico mette in seria crisi il raggiungimento di una completa
autonomia. Sicuramente il livello di funzionamento cognitivo e l’acquisizione
del linguaggio costituiscono un ottimo predittore fino all’età adulta.
Secondo Vicari et Al. (2012), affrontando
inizialmente un discorso sull’autismo non possiamo non tener in conto dei
disturbi pervasivi dello sviluppo (Pervasive Developmental Disorders) che sono
“un gruppo di condizioni che comprende il disturbo autistico (o autismo
infantile), la sindrome di Asperger, la sindrome di Rett, il disturbo
disintegrativo della fanciullezza e il disturbo pervasivo dello sviluppo-non
altrimenti specificato (DPS-NAS). Autismo, sindrome di Asperger e DPS- NAS sono
attualmente anche indicati come disturbi dello spettro autistico (Autism
Spectrum Disorders, ASD)”.
Nel nostro ragionamento ci riferiremo
proprio a questa categoria nosologica, che è quella adottata dalle
classificazioni internazionali.
A livello clinico oltre alle tre
principali caratteristiche (OMS, 1992; APA 2000), quali le compromissioni
qualitative delle interazioni sociali, le compromissioni qualitative della
comunicazione e il repertorio limitato stereotipato, ripetitivo di interessi e
di attività, altri aspetti sono da tenere in considerazione:
1.
Esordio nei primi anni di vita;
2.
il ritardo e/o l’atipia nello sviluppo
delle varie funzioni psicologiche;
3.
l’eziologia multifattoriale in cui
molteplici, ma ancora poco conosciuti, fattori di rischio genetico
interagiscono tra loro e con fattori ambientali;
4.
il cambiamento e la frequente attenuazione
sintomatologica durante lo sviluppo;
5.
un decorso cronico con una significativa
persistenza della disabilità nel tempo;
6.
l’affermazione che i disturbi dello
spettro autistico sono una condizione clinica differenziata, la cui variabilità
clinica è data dalle abilità linguistiche e dal livello di funzionamento
cognitivo;
7.
L’età, la gravità delle tre
caratteristiche basilari e le condizioni mediche, come ad esempio l’epilessia,
e la comorbidità psichiatrica.
La storia dell’eziopatogenesi
dell’autismo è, secondo Barale e Ucelli (2006), estremamente complessa e
inoltre anche contraddistinta da posizioni teoriche molto rigide.
In due articoli e in due contesti
differenti, Leo Kanner (Autistic disturbances of affective contact, 1943) e Hans
Asperger (Die autistichen Psycopaten im Kindesalter, 1944) sono stati i primi
autori a utilizzare il termine autismo, le cui caratteristiche erano date da
bizzarria, isolamento, stereotipie e scarsa capacità di comunicare.
Come riportato anche da Valeri e Vicari
(2012), la ricerca clinica innovativa di Kanner era stata compiuta su 11
bambini, tra i 2 e gli 8 anni, i cui comportamenti erano dati da isolamento
sociale, tratti ossessivi, stereotipie ed ecolalia. La ricerca di Asperger,
tradotta in inglese nel 1991 da Uta Frith, invece, ha preso in considerazione solamente
quattro bambini, con un quoziente di intelligenza nella norma, ma risultanti, bizzarri
a livello sociale e anche inadeguati, che avevano ottime conoscenze lessicali e
grammaticali con una bassa comunicazione non verbale, interessi delimitati e
difficoltà nella coordinazione motoria. La sindrome di Asperger è stata
inserita per la prima volta nel DSM-IV nel 1994 e nell’ICD-10 nel 1992.
Successivamente alle ricerche di Kanner
e Asperger alcuni studi di natura psicodinamica hanno orientato l’attenzione
sulla spiegazione che l’autismo potesse essere riferita ad un rifiuto della
madre e alle conseguenti deprivazioni affettivo-emozionali, coniando la
proposizione “madri frigorifero”, che ha trovato d’accordo anche Kanner.
Infatti i bambini da lui osservati avevano come caratteristiche la freddezza,
il distacco e il perfezionismo, insieme alla mancanza del senso di umorismo
(1944).
Certamente anche il libro “La fortezza
vuota” (Garzanti, 20019 di Bruno Bettelheim, in cui l’autore evidenzia come
l’autismo fosse una sorta di tentativo estremo di difesa rispetto ad un
ambiente ostile con assenza di amorevolezza.
La grande ribellione da parte delle
famiglie e dei movimenti per la difesa dei diritti dei bambini, fece giungere
il prof. Kanner nel 1969 a delle pubbliche scuse, e con la presa di distanza
dalle sue prime ricerche.
I periodi successivi furono floridi per
quanto riguardava il trattamento, in particolar modo il metodo TEACCH di
Shopler (2004) che si ispirava alle teorie di Lovaas (1993).
La storia dell’autismo si incentra
intorno alle varie edizioni del DSM, ossia il Manuale Diagnostico e Statistico
dei Disturbi Mentali, che viene utilizzato da medici, psichiatri e psicologi di
tutto il mondo, in quanto è redatto dall’APA (American Psychiatric
Association). Le versioni alle quali ci riferiremo sono la prima, la terza e la
quinta.
Il motivo dell’interesse riguarda il
passaggio storico per arrivare alla definizione dei disturbi dello spettro
autistico.
Nella prima edizione che risale al 1952,
l’autismo non era un disturbo indipendente, quanto un sintomo rappresentativo
di una manifestazione primaria della schizofrenia.
Con la pubblicazione del DSM-III (APA,
1980) viene ad essere proposta l’espressione Pervasive Developmental Disorders
che erano rappresentati da comportamenti quali atipie nello sviluppo di molte
funzioni di base, inerenti le competenze sociali e comunicativo-linguistiche,
come, ad esempio, l’attenzione, la percezione e la programmazione motoria. In
italiano sono stati tradotti come Disturbi generalizzati dello sviluppo.
Per la prima volta nel DSM-III l’autismo
è stato differenziato dalla schizofrenia e dalle altre psicosi. Pertanto nei
criteri non sono presenti sintomi psicotici (deliri e allucinazioni).
Una grande rivoluzione avviene
successivamente con l’avvento del DSM-5 (2014): la categoria diagnostica di
Pervasive Developmental Disorders viene sostituita da quella di Autism Spectrum
Disorders, disturbi dello spettro autistico. I quattro criteri
diagnostici sono (http://www.dsm5.org) :
A. Deficit persistente nella comunicazione sociale e
nell’interazione sociale;
B.
Un pattern ristretto e ripetitivo di
comportamenti, interessi e attività;
C.
I sintomi devono essere presenti
nell’infanzia, ma possono manifestarsi pienamente solo quando le richieste
sociali eccedono le capacità limitate;
D. I sintomi nel loro insieme limitano e compromettono il
funzionamento quotidiano.
Poniamoci ora una domanda: quando si
comprende che un bambino è autistico?
Alcuni bambini mostrano segni dalla nascita. Altri
sembrano svilupparsi normalmente all’inizio, per poi scivolare improvvisamente
nei sintomi quando
hanno tra i 18 e i 36 mesi.
I predittori di esito dall’età
prescolare all’adolescenza comprendono l’attenzione congiunta, l’imitazione
verbale e non verbale.
Quelli più rilevanti sono il QI non
verbale e le competenze linguistiche.
Se il QI non verbale risulta meno di 50,
le conseguenze riguardano una diminuita possibilità nell’acquisizione, a
livello funzionale, del linguaggio verbale e di un adeguato funzionamento a
livello sociale nell’adolescenza e nell’età adulta.
In assenza di una disabilità
intellettiva grave, i bambini autistici hanno come predittori di un buon esito
sociale le abilità linguistiche con il relativo QI verbale.
Un linguaggio poco fluente a 5 anni,
anche in presenza di miglioramenti, determinerà una minore possibilità nella
flessibilità e nella complessità verbale.
Nel caso di un ritardo più alto, esiste
una relazione con il suo livello di indipendenza.
Si sottolinea come, nonostante sia
importante la presenza di QI e abilità verbali e come fattori intrinseci
adeguati, non viene sempre garantito un esito positivo.
Al contrario, fattori esterni, come una
buona esperienza scolastica e un programmato intervento lavorativo protetto,
siano fondamentalmente importanti.
Dopo la diagnosi di autismo, i genitori
si chiedono quale possa essere stata la causa dell’autismo del figlio. La
risposta è impossibile da fornire perché esiste una combinazione di potenziali
cause. Infatti i fattori di rischio sono delle combinazioni di cause che si
trovano a livello genetico, ambientale e nelle differenze della biologia cerebrale.
Certamente una diagnosi precoce, come
prospettano i clinici, è costituita dai segnali che emergono già a pochi giorni
dalla nascita. Ad un anno e mezzo circa, il cervello è più plastico per poter
iniziare un trattamento. I bambini non hanno un sorriso sociale, non prendono
il viso dell’altro, il gioco sociale è assente, oltre ad essere ripetitivo, non
si voltano se chiamati, non giocano con altri bambini, con indicano, non hanno
gioco simbolico (come fare Ciao, far finta di parlare al telefono), non hanno
empatia. Quando si incontrano i genitori e si osserva il bambino, l’idea
fondamentale è proprio quella che possiamo definire come “finestra di
neuroplasticità”. Si possono infatti individuare delle forme lievi che escono
fuori dalla soglia.
E poi dobbiamo aver presente la
comorbidità con sintomi di aggressività, iperattività, comportamenti oppositivi
e provocatori, disturbi dell’umore e ansia. Le medicine aiutano il bambino a
vivere meglio la propria vita, ma non curano l’autismo.
Come si può intervenire a scuola?
Innanzitutto la scuola, oltre ad essere
uno degli spazi che favoriscono ai bambini e ragazzi con disturbi dello spettro
autistico per svolgere un lavoro psicoeducativo efficace, è anche l’incontro
con la famiglia. Al di là delle categorie diagnostiche, della diagnosi clinica
e della costruzione del Piano Educativo Individualizzato si sviluppano idee
comuni e obiettivi condivisi, quali:
·
L’autonomia;
·
L’inserimento nel gruppo dei coetanei;
·
La comunicazione sociale;
·
Il distogliere l’alunno dalla
ripetitività;
·
L’espandere gli interessi nel gioco;
·
Il miglioramento adattivo globale.
Quanto detto è stato rilevato nelle
ricerche internazionali, considerando come un buon recupero dei deficit
cognitivi, comunicativi e sociali sia possibile proprio mediante pratiche a
livello comportamentale e psicoeducativo.
Si possono indicare cinque punti
imprescindibili a livello processuale:
1.
Osservazione e conoscenza dell’alunno,
sottolineando i punti di forza e di debolezza;
2.
Costruzione della relazione insegnante-operatore-alunno;
3.
Strutturazione dell’ambiente;
4.
Personalizzazione degli obiettivi;
5.
Definizione dei contenuti.
Se ci spostiamo nel micro, un altro
momento fondamentale è l’organizzazione della giornata scolastica (Greenspan,
Wider, 2006).
Il Developmental Individual-Differences, Relationship-Based Model (DIR®) è
stato ideato e sperimentato, negli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta, da
Stanley I. Greenspan, professore
di Psichiatria e Scienze Comportamentali alla G. Washington University Medical
School, fondatore dell’associazione "Zero to Three" e presidente
dell’ICDL (International Council on Developmental and Language disorders). L’intervento psico-educativo sarà strutturato
in un ambiente che in modo naturale mette in relazione il bambino con l’adulto
creando un’interazione sociale fondata sull’emotività. Quindi ci saranno
sessioni di gioco spontaneo,
denominate "Floortime" per
creare un contesto gratificante e divertente e dove ampliare l’emotività. Non sono segnalati limiti di età per l’applicazione di
questo programma.
La giornata scolastica, secondo gli
autori, è divisa in tre parti:
La prima parte è formata da attività
individuali o in piccoli gruppi, la cui finalità risiede nel consolidamento
delle abilità di elaborazione uditiva e visuo-spaziale (il proprio corpo nello
spazio) e nell’organizzazione sequenziale, come ad esempio lo sport, la musica,
la danza, l’espressione grafica.
Nella seconda parte della giornata, si
lavorerà con l’alunno ad attività che riguardano il ragionamento, il problem solving
e la gestione dei conflitti. Considerando il tema dell’emotività, tutte le
attività svolte dovranno essere in sintonia con la vita affettiva dell’alunno.
La terza parte e ultima parte della
giornata scolastica terrà conto dei contenuti didattici, attraverso attività il
cui obiettivo è il far accrescere la capacità di pensare dell’alunno con
esercizi creativi e non ripetitivi (Un problema, come abbiamo visto, dello
spettro autistico).
Il tempo di ogni attività non dovrebbe
superare i trenta minuti.
Tale tipo di intervento ha come finalità
di generalizzare nei contesti quotidiani le conquiste effettuate; Favorire la
comprensione delle diverse situazioni sociali; Il saper decodificare i
differenti stati emotivi; e l’acquisire modalità comunicative ed emotive
comprensibili.
Altri metodi possibili:
1. Metodo educativo-tecnica ABA
(comportamentale). Baer, Wolf e Risley, dell’Università del Kansas, coniano il termine
“Applied Behavior Analysis” (Analisi Applicata del Comportamento) per indicare
interventi della psicologia comportamentale (1968), applicando i principi di
Skinner a comportamenti umani socialmente significativi, in particolare alle
disabilità dello sviluppo, al ritardo mentale e ai comportamenti problema
associati all’autismo. "L’applicazione
del metodo comportamentale trova il suo senso soprattutto per le attività
educative con gli alunni con disabilità intellettive gravi e l’autismo a basso
funzionamento."
2.
TEACCH. Il Treatment and
Education of Autistic and Related Communication Handicapped Children
(TEACCH) identifica un metodo comprensivo che utilizza attività
gradite ai bambini che dovrebbero essere di più facile comprensione pratica e
generalizzazione. L'obiettivo
primario di questo intervento è migliorare le diverse aree dello sviluppo di un
individuo, concentrandosi sui punti di forza, gli interessi e i bisogni dei
ambini. Questo trattamento si basa sulle
tradizionali tecniche comportamentali, neo-comportamentali ed evolutive, di
solito parte di programmi d’aula di insegnamento strutturato.
3.
Il Modello JASPER. L'approccio Joint Attention, Symbolic Play, Engagement & Regulation (JASPER)
è stato sviluppato da Connie
Kasari con l'obiettivo di interagire con i bambini con autismo,
attraverso strategie naturalistiche rivolte alle basi della comunicazione
sociale in termini di attenzione congiunta, imitazione, e gioco. Il modello JASPER
si basa sul presupposto che le capacità comuni di attenzione e gioco rappresentano una componente chiave della futura capacità
del bambino di comprendere le rappresentazioni mentali altrui e, di
conseguenza, possono influenzare positivamente le capacità sociali, cognitive e
linguistiche dei bambini.
4. Il modello Denver ESDM.
Early Start Denver model è un programma promosso dagli inizi degli anni
Ottanta da Sally Rogers e collaboratori, all’interno dei programmi per le
Disabilità dello sviluppo dell’Università del Colorado Health Sciences Center
(UCHSC). Pensato e
strutturato per bambini in età prescolare e grazie agli studi clinici
randomizzati controllati positivi (migliora le abilità cognitive e riduce il
peggioramento nei comportamenti adattativi a 2 anni dall’inizio, in una
popolazione di bambini di età compresa tra i 18 e i 36 mesi) si avvale della
teoria dell’efficacia dell’intervento precoce. (LG21 p102).
Il percorso
inclusivo dei bambini con autismo può essere potenziato utilizzando alcune
strategie (R. Sala, 2022). Sarebbe impossibile in questo piccolo spazio poterle
citare tutte e spiegarle in maniera analitica.
Sicuramente
tra gli strumenti da privilegiare possiamo collocare l’Agenda, perché può
aiutare il nostro alunno a orientarsi a livello temporale nell’organizzazione
della giornata scolastica. Il riferimento può essere utilizzato anche come
un’integrazione al modello di Greenspan, presentato più sopra.
Altre
strategie che si integrano riguardano la Task Analysis, le storie sociali, le
carte stimolo e perché no, il termometro delle emozioni.
In conclusione, possiamo dire che il
compito prevalente di una scuola inclusiva è il superamento dell’approccio centrato
sulla mancanza contrapposto con il mettere al centro i bisogni del nostro
alunno autistico. Non è un compito estremamente facile quello degli educatori,
considerando la molteplicità delle variabili presenti nel/sul campo.
Focalizzarsi sui bisogni di un alunno con lo spettro autistico significa:
1.
Ricercare un ambiente stabile;
2.
Avere accesso ai mediatori della
comunicazione;
3.
Regolare la sensorialità;
4.
Prospettare la comprensione delle regole
sociali;
5.
Individuare strategie comportamentali.
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